mercoledì 6 marzo 2013

salto nel Tao


Sulla cima di una mesa nel deserto messicano si svolge l'ultima epica scena di Carlos Castaneda con il suo insegnante (il maestro per la prima attenzione del tonal) Don Juan Matus, un indio yacqui del nord del Messico, e il suo benefattore (il maestro per la seconda attenzione del nagual) Don Genaro Flores, un indio mazateco del Messico centrale: lanciandosi nell'abisso, per sopravvivere il suo compito sarà passare da solo nella seconda attenzione e "spiegare le ali della percezione" per entrare nel nagual.
Il racconto finale del quarto libro, che segna la fine di un ciclo, è solo parziale; nei libri successivi risulterà evidente che quanto riportato è solo una parte di quanto accaduto, quella percepita dalla prima attenzione:
Don Juan mi svegliò all'alba. Mi diede una zucca piena d'acqua e un sacchetto di carne secca. Camminammo in silenzio per un paio di miglia, fino al posto in cui avevo lasciato l'automobile due giorni prima.
"E' il nostro ultimo viaggio insieme" egli disse con voce calma quando arrivammo alla macchina.
Provai un forte sobbalzo nello stomaco. Capivo quel che intendeva.
Si appoggiò al parafango posteriore, mentre aprivo lo sportello del passeggero, e mi guardò con un sentimento che prima non aveva mai mostrato. Entrammo nella macchina, ma prima che avviassi il motore don Juan fece qualche oscuro commento, che tuttavia compresi alla perfezione; disse che disponevamo di pochi minuti per restare li seduti e affrontare una volta ancora alcuni sentimenti molto personali e acuti.
Rimasi seduto in silenzio, ma il mio spirito era inquieto. Volevo dirgli qualcosa, qualcosa che avrebbe soprattutto calmato me stesso. Cercai invano le parole adatte, la formula appropriata ad esprimere quanto "sapevo" senza che mi fosse stato detto.
Don Juan parlò di un bambino che una volta conoscevo, verso il quale i miei sentimenti non sarebbero cambiati nonostante la distanza di anni. Disse d'essere certo che ogni volta che io pensavo a quel bambino il mio spirito balzava di gioia e gli augurava tutto il bene possibile, senza traccia di egoismo o di meschinità.
Mi ricordò una storia che gli avevo raccontato un giorno, a proposito di quel bambino: una storia che gli era piaciuta e che aveva trovato ricca di profondo significato. Durante una delle nostre gite sulle montagne intorno a Los Angeles, il bambino s'era stancato di camminare e lo avevo preso in spalla. Ci aveva allora invaso un'ondata di intensa felicità, e il bambino aveva gridato il suo grazie al sole e alle montagne.
"Era il suo modo di dirvi addio" disse don Juan.
Provai un senso d'angoscia in gola.
"Ci sono molti modi di dire addio" aggiunse don Juan. "Il modo migliore consiste forse nel conservare un particolare ricordo di gioia. Per esempio, se vivrete come un guerriero il calore che provaste con il bambino a cavalcioni delle spalle resterà vivo e intenso finché vivrete. Questo è il modo di dire addio del guerriero."
Precipitosamente accesi il motore e guidai, a velocità maggiore del solito, sulla strada acciottolata, finché giungemmo a quella di terra battuta.
Proseguimmo per un breve tratto in macchina; poi percorremmo a piedi il resto della strada. Dopo un'ora circa giungemmo ad un ciuffo di alberi. Don Genaro, Pablito e Nestor erano li ad aspettarci. Li salutai. Sembravano tutti e tre di ottimo umore e perfettamente in forze. Quando li guardai e guardai don Juan fui sopraffatto da un senso di simpatia e di affinità verso di loro. Don Genaro mi abbracciò e mi batté affettuosamente sulla schiena. Disse a Nestor e a Pablito che mi ero comportato molto bene saltando nel fondo della gola. Con la mano ancora sulla mia spalla, si rivolse a loro e disse sonoramente: "Sissignore. Io sono il suo benefattore e so che è stato veramente un successo. E' il coronamento di anni di vita da guerriero".
Si voltò verso di me e mi mise anche l'altra mano sulla spalla. Aveva gli occhi lucenti e tranquilli.
"Non posso dirvi altro, Carlitos" esclamò, pronunciando lentamente le parole. "Se non che avevate una quantità straordinaria di escrementi nelle budella."
Al che lui e don Juan scoppiarono a ridere da morire. Pablito e Nestor ridacchiarono nervosi, non sapendo bene che fare.
Quando don Juan e don Genaro si furono calmati, Pablito mi disse che non era certo della sua capacità di penetrare nell'ignoto da solo.
"Davvero non ho la minima idea di come riuscire a farlo" disse. "Genaro afferma che basta essere senza macchia, che non c'é bisogno d'altro. Cosa ne pensate?"
Gii risposi che ne sapevo ancor meno di lui. Nestor sospirò; sembrava molto preoccupato: muoveva le mani e la bocca nervosamente, come se stesse per dire qualcosa d'importante e non sapesse come.
"Genaro dice che voi due lo farete" disse alla fine.
Don Genaro ci fece cenno con la mano di avviarci. Lui e don Juan procedettero insieme, poche yarde dinanzi a noi. Per quasi tutto il giorno seguimmno il medesimo sentiero montano. Camminavamo in assoluto silenzio, senza mai fermarci. Tutti noi avevamo una provvista di carne secca e una zucca piena d'acqua, ed era inteso che avremmo mangiato camminando. A un certo punto il sentiero divenne una vera e propria strada. Girò intorno al fianco della montagna, e d'improvviso s'apri dinanzi a noi il panorama di una valle. Era uno spettacolo da togliere il respiro: una lunga vallata verde che luccicava al sole; su di essa s'innalzavano due magnifici arcobaleni; zone di pioggia si vedevano sulle colline tutt'intorno.
Don Juan si fermò e protendendo il mento indicò a don Genaro qualcosa, giù nella valle. Don Genaro scosse la testa. Non era un cenno affermativo o negativo, ma piuttosto uno scatto del capo. Entrambi restarono immobili a scrutare nella valle, a lungo.
Di là, lasciammo la strada e prendemmo quella che sembrava una scorciatoia. Cominciammo a scendere per un sentiero stretto e ripido che conduceva al lato settentrionale della valle.
Quando raggiungemmo il piano era la metà del pomeriggio. Mi avvolse il forte odore dei salici e della terra umida. Per un attimo la pioggia fu simile a un rombo soffocato sugli alberi vicini, alla mia sinistra; poi, solo un tremito fra le canne. Udii il mormorio di un torrente. Mi fermai per un momento ad ascoltare. Guardai sopra le cime degli alberi; gli alti cirri sull'orizzonte occidentale sembravano bioccoli di cotone sparsi per il cielo. Rimasi a guardare le nuvole, e intanto gli altri mi passarono avanti per un certo tratto. Gli corsi dietro.
Don Juan e don Genaro si fermarono e si girarono all'unisono; i loro occhi si mossero e si fissarono su di me con tale uniformità e precisione che parvero quelli di una sola persona. Fu un breve e stupendo sguardo che mi fece rabbrividire. Poi don Genaro rise e disse che correvo battendo il suolo come un messicano piedi piatti di trecento libbre.
"Perché proprio un messicano?" chiese don Juan.
"Un indio piedi piatti di trecento libbre non corre" disse don Genaro con il tono di chi spiega.
"Ah, ecco" esclamò don Juan, come se don Genaro avesse veramente spiegato qualcosa.
Attraversammo la stretta valle lussureggiante e ci arrampicammo sulle montagne a est. Nel tardo pomeriggio ci fermammo finalmente sulla sommità di un altopiano arido e piatto che verso sud sovrastava un'alta vallata. La vegetazione era completamente mutata. Tutt'intorno c'erano montagne rotonde ed erose. Nella valle e sui fianchi delle alture il terreno era suddiviso e coltivato; tuttavia l'intera scena mi diede un'impressione di sterilità.
Il sole era già basso sull'orizzonte sud-occidentale. Don Juan e don Genaro ci chiamarono sull'orlo settentrionale dell'altopiano. Di là, la vista era sublime. Verso nord si stendevano valli e montagne senza fine ; una catena  di alte sierras sorgeva a ovest. Riflettendosi sulle lontane montagne settentrionali, la luce del sole le rendeva color arancio, come i banchi di nuvole a ovest. Nonostante la sua bellezza, quello scenario era triste e solitario.
Don Juan mi diede il mio notes, ma non avevo voglia di prendere appunti. Sedemmo in semicerchio, con don Juan e don Genaro alle estremità.
"Avete iniziato il sentiero del sapere scrivendo, e lo finirete nello stesso modo" disse don Juan.
Tutti mi sollecitarono a scrivere, come se fosse cosa indispensabile.
"Siete proprio sull'orlo, Carlitos" disse don Genaro d'improvviso. "Voi e Pablito."
La sua voce era morbida. Senza il consueto tono di scherzo, suonava benevola e ansiosa.
"Altri guerrieri che viaggiarono nell'ignoto si sono fermati proprio in questo punto" aggiunse. " Tutti augurano a voi due ogni bene."
Sentii un incresparsi intorno a me, come se se l'aria fosse divenuta solida e qualcosa avesse creato un'onda che la increspava.
"Tutti noi, qui, vi auguriamo ogni bene" disse don Genaro.
Nestor abbracciò Pablito e me, poi si sedette in disparte.
"Abbiamo ancora un po' di tempo", disse don Genaro guardando il cielo. Poi si voltò verso Nestor e chiese: "Cosa dobbiamo fare nel frattempo?"
"Dobbiamo ridere e divertirci" rispose svelto Nestor.
Dissi a don Juan che ero spaventato da ciò che mi aspettava, e che certissimamente ero stato ingannato, io, che non avevo neppure immaginato che esistessero situazioni come quella che io e Pablito stavamo vivendo. Dissi che qualcosa di veramente terribile s'era impadronito di me e a poco a poco mi aveva sospinto dinanzi a qualcosa di peggiore della morte.
"Vi state compiangendo" disse secco don Juan. "Vi compassionate fino all'ultimo."
Tutti risero. Don Juan aveva ragione. Che impulso irresistibile! E io che pensavo d'averlo vinto per il resto dei miei giorni! Li pregai tutti di dimenticare la mia stupidaggine.
"Non scusatevi" mi disse don Juan. "Le scuse sono un'assurdità. Ciò che veramente conta è essere un guerriero senza macchia in questo eccezionale luogo del potere. Questo luogo ha accolto i migliori guerrieri. Siate pari a loro."
Poi si rivolse a Pablito e a me.
"Sapete già che questo è l'ultimo compito di fronte al quale vi trovate insieme" disse. "Entrerete nel nagual e nel tonal grazie unicamente al vostro potere personale. Genaro ed io siamo qui solo per dirvi addio. Il potere ha stabilito che Nestor dovesse essere testimone. Tale egli sia."
"Questo sarà anche, per voi, l'ultimo bivio al quale Genaro ed io saremo presenti. Quando sarete entrati da soli nell'ignoto, non dipenderà più da noi richiamarvi indietro; la vostra decisione è dunque l'unica che conta: dovete decidere se ritornare o no. Confidiamo che ambedue abbiate la forza di ritornare, se sceglierete di farlo. L'altra notte siete stati perfettamente capaci, all'unisono o separatamente, di respingere l'alleato che altrimenti vi avrebbe sconfitto e ucciso. Era una prova della vostra forza."
"Devo anche aggiungere che pochi guerrieri sopravvivono all'incontro con l'ignoto che state per avere; non tanto perché sia arduo, quanto perché il nagual è seducente più di quanto si possa dire, e guerrieri che viaggiano in esso trovano che ritornare al tonal, o al mondo dell'ordine, del rumore e della pena, sia ben poco attraente."
"La decisione di restare o di ritornare è presa da qualcosa in noi che non è la nostra ragione né il nostro desiderio, bensì la nostra volontà: perciò è impossibile prevederla in anticipo."
"Se sceglierete di non ritornare, sparirete come se la terra vi avesse inghiottito. Ma se sceglierete di ritornare a questa terra, dovrete aspettare, da veri guerrieri, che i vostri specifici compiti siano terminati. Una volta essi terminati, sia con il successo, sia con il fallimento, avrete il comando sulla totalità di voi stessi."
Don ]uan tacque per un momento. Don Genaro mi guardò e ammiccò.
"Carlitos vuol sapere cosa significa avere il comando sulla totalità di se stessi" disse, e tutti risero.
Aveva ragione. In altre circostanze lo avrei precisamente chiesto; ma la situazione era troppo solenne per porre domande.
"Significa che il guerriero ha finalmente incontrato il potere" disse don Juan. "Nessuno può dire cosa ciascun guerriero farà col potere; forse voi due vivrete tranquillamente, ignoti, sulla faccia della terra; o forse diventerete uomini odiosi, o forse celebri, o benevoli. Tutto dipende dall'impeccabilita e dalla libertà del vostro spirito."
"Ciò che conta, comunque, è il vostro compito. Questa è la donazione che l'insegnante e il benefattore fanno ai loro apprendisti. Mi auguro che voi due riusciate a portare al culmine i vostri compiti."
"Aspettarsi di eseguire questo compito è un'attesa molto particolare" intervenne improvvisamente don Genaro. "E adesso vi racconterò la storia di una banda di guerrieri che vissero in altri tempi sulle montagne, pressappoco in questa direzione."
Indicò a caso verso est; poi, dopo un attimo di esitazione, parve cambiare idea, si alzò e indicò le lontane montagne settentrionali.
"No. Vissero in questa direzione" disse, guardandomi e sorridendo con aria erudita. "Esattamente centotrentacinque chilometri da qui."
Forse don Genaro mi stava facendo il verso. Aveva la bocca e la fronte contratte, le mani strette al petto come se premessero un oggetto immaginario, forse un notes. Era in un atteggiamento estremamente ridicolo. Una volta avevo incontrato uno studioso tedesco, un sinologo, che stava esattamente come lui. Il pensiero che per tutto quel tempo io avessi imitato inconsciamente le smorfie di un sinologo tedesco mi sembrò buffissimo. Risi da solo. Quello sembrava uno scherzo destinato proprio a me.
Don Genaro tornò a sedersi e raccontò la sua storia.
"Ogni volta che si riteneva che un guerriero di quella banda avesse commesso un'azione contraria alle leggi, il suo destino era affidato alla decisione di tutti. L'accusato doveva spiegare le ragioni per cui s'era comportato cosi. I compagni dovevano ascoltarlo; poi, o scioglievano la riunione, avendo trovato convincenti le sue ragioni, oppure si allineavano con le loro armi sull'estremo limite di una montagna piatta, molto simile a questa, pronti ad eseguire su di lui la sentenza capitale, poiché avevano trovato inaccettabili le sue ragioni. In questo caso il guerriero condannato doveva dire addio ai vecchi compagni, e l'esecuzione aveva inizio."
Don Genaro guardò me e Pablito come se si aspettasse da noi un segno. Poi si volse verso Nestor.
"Forse" gli chiese "il testimone che abbiamo qui potrebbe dirci quanto ha a che fare la storia con questi due."
Nestor sorrise timidamente e per un momento parve immergersi in profonda riflessione.
"Il testimone non ne ha idea" disse poi, con un risolino nervoso.
Don Genaro chiese a tutti noi di alzarci e andare con lui a guardare cosa c'era sul limite occidentale dell'altopiano.
Vedemmo un moderato pendio e, in fondo, una stretta e piatta striscia di terra che terminava in una fenditura, un canale naturale - si sarebbe detto - per il deflusso dell'acqua piovana.
"Proprio nel punto di questo fosso" disse don Genaro "c'era una fila di alberi, nella mia storia. E di là da questo punto, una fitta foresta.
"Dopo aver detto addio ai compagni, il guerriero condannato cominciava a scendere per il pendio, verso gli alberi. I compagni allora preparavano le armi e puntavano contro di lui. Se nessuno lo colpiva, o se egli riusciva a sopravvivere alle ferite ed a raggiungere il limitare degli alberi, il guerriero era libero."
Tornammo nel posto in cui eravamo seduti prima.
"E adesso, testimone?" don Genaro chiese a Nestor. "Cosa ne dite?"
Nestor era il nervosismo fatto persona. Si tolse il cappello e si grattò la testa. Poi nascose la faccia tra le mani.
"Cosa ne sa il povero testimone?" replicò alla fine in tono di sfida, e rise con tutti gli altri.
"Dicono che alcuni riuscivano a rimanere illesi" aggiunse don Genaro. "Sembra che il loro potere personale raggiungesse i compagni. Mente miravano, quelli si sentivano attraversati da un'ondata e non osavano adoperare le armi. O forse erano ammirati del coraggio del condannato e non lo colpivano."
Don Genaro mi guardò, poi guardò Pablito.
"Il guerriero doveva camminare fino al limitare degli alberi in un modo prestabilito" prosegui. "Doveva muoversi calmo e imperturbato, a passi sicuri, decisi, gli occhi dritti dinanzi a sé, tranquillamente. Doveva scendere il pendio senza inciampare, senza voltarsi, e soprattutto senza correre"
Don Genaro fece una pausa; Pablito assen col capo.
"Se deciderete di tornare su questa terra," disse don Genaro "dovrete aspettare da veri guerrieri che i vostri compiti siano terminati. Questa attesa è molto simile alla tranquilla camminata del guerriero nella storia. Il guerriero era uscito dal tempo umano, come voi. La differenza sta soltanto in chi vi prende di mira. Il guerriero era preso di mira dagli altri guerrieri, suoi compagni. Ma ciò che prende di mira voi è l'ignoto. La vostra unica possibilità di riuscita sta nell'essere senza macchia. Dovete aspettare senza voltarvi. Dovete aspettare senza sperare in una ricompensa. E dovete concentrare tutto il vostro potere personale nell'esecuzione dei vostri compiti."
"Se non agite senza macchia, se cominciate a inquietarvi e ad impazientirvi, a disperarvi, sarete abbattuti senza pietà dai tiratori scelti dell'ignoto."
"Se invece siete senza macchia e avete sufficiente potere personale per eseguire i vostri compiti, si attuerà per voi la promessa del potere. E che cos'è questa promessa? chiederete. E' la promessa che il potere fa agli uomini in quanto esseri luminosi. Ogni guerriero ha una sorte diversa, per cui non si può dire come si attuerà quella promessa per ciascuno di voi."
Il sole stava per tramontare. Il colore arancio chiaro sulle lontane montagne settentrionali cominciava a incupire. Il paesaggio mi dava la sensazione di un mondo solitario, battuto dal vento.
"Avete imparato che il carattere fondamentale del guerriero consiste nell'essere umile ed efficiente" disse don Genaro, e la sua voce mi fece sobbalzare. "Avete imparato ad agire senza aspettarvi nulla in cambio. Ora vi dico che per reggere quanto vi sta dinanzi, di là da oggi, avrete bisogno di estrema pazienza."
Provai un urto nello stomaco. Pablito cominciò a tremare piano.
"Un guerriero dev'essere sempre pronto" disse don Genaro. "La sorte di noi tutti, qui, è stata di sapere che siamo i prigionieri del potere. Nessuno sa perché proprio noi, in particolare. Ma che gran fortuna!"
Don Genaro cessò di parlare e abbassò la testa come se fosse esausto. Era la prima volta che l'avevo sentito parlare in questi termini.
"E ora necessario che il guerriero dica addio a tutti i presenti e a tutto ciò che si lascia alle spalle" intervenne improvvisamente don Juan. "Deve farlo con parole sue, sonore, in modo che la sua voce rimanga per sempre qui, in questo luogo del potere."
La voce di don Juan introdusse un'altra dimensione nel mio stato d'animo. La nostra conversazione nell'automobile divenne ancor più cocente. Aveva perfettamente ragione, quando diceva che la serenità del paesaggio intorno a noi era solo un miraggio e che la spiegazione degli stregoni tira un colpo che nessuno può parare. Avevo udito la spiegazione degli stregoni e sperimentato le sue premesse; ed ora ero lì, più nudo e impotente che mai in tutta la mia vita. Nulla di ciò che avevo fatto, nulla di ciò che avevo immaginato, si poteva paragonare all'angoscia e alla malinconia di quell'ora. La spiegazione degli stregoni mi aveva privato anche della "ragione". Di nuovo, don Juan era nel giusto quando diceva che un guerriero non può evitare pena e affanno, ma solo evitare di indulgervi. La mia tristezza in quel momento era incontenibile. Non ero capace di dire addio a coloro che avevano spartito con me le vicende della mia sorte. Dissi a don ]uan e a don Genaro che avevo stretto con qualcuno il patto di morire insieme, e che il mio spirito non sopportava di partirsene solo.
"Tutti siamo soli, Carlitos" don Juan disse piano. " E' la nostra condizione."
Sentii salirmi in gola l'ansia della mia passione per la vita e per chi mi era vicino. Rifiutavo di dire loro addio.
"Noi siamo soli" ripeté don Juan "Ma morire soli non significa morire in solitudine."
La sua voce suonò attutita ma secca, come colpi di tosse.
Pablito piangeva in silenzio. Poi si alzò e parlò.
Non fu un'arringa o una testimonianza. Con voce chiara ringraziò don Genaro e don Juan per la loro benevolenza. Si voltò verso Nestor e lo ringraziò d'avergli offerto l'opportuniti di prendersi cura di lui. Si asciugò gli occhi con la manica.
"Com'é stato bello vivere in questo splendido mondo! In questo tempo magnifico!" esclamò sospirando.
Il suo atteggiamento era estremamente commovente.
"Se non ritornassi, vi prego come estremo favore di aiutare coloro che hanno spartito la mia sorte" disse a don Genaro.
Poi si volse verso occidente, in direzione della sua casa. Il suo corpo scarno era scosso dai singhiozzi. Corse verso il limitare dell'altopiano con le braccia spalancate, come se si precipitasse ad abbracciare qualcuno. Muoveva le labbra; sembrava che parlasse a bassa voce.
Volsi la testa. Non volevo sentire ciò che Pablito stava dicendo.
Poi lui tornò dov'eravamo seduti, crollò giù vicino a me, e abbassò il capo.
Ero incapace di parlare. Ma una forza esterna sembrò impadronirsi di me e mi fece alzare, e anch'io parlai, anch'io espressi la mia gratitudine e la mia tristezza.
Tornammo a tacere. Un vento settentrionale sibilava leggero, colpendomi in viso. Don Juan mi guardò.
Non avevo mai visto tanta benevolenza nei suoi occhi. Mi spiegò che un guerriero dice addio ringraziando tutti coloro che ebbero per lui un gesto di benevolenza o di premura, e che io dovevo esprimere la mia gratitudine non solo a loro, ai presenti, ma a tutti coloro che s'erano presi cura di me. e mi avevano aiutato lungo il mio cammino.
Mi volsi a nord-ovest, in direzione di Los Angeles, e tutto il sentimenralismo del mio spirito venne fuori. Che sollievo purificante esprimere cosi la mia gratitudine!
Mi sedetti di nuovo. Nessuno mi guardò.
"Un guerriero riconosce la sua pena, ma non vi indulge" disse don Juan. "Lo stato d'animo del guerriero che entra nell'ignoto non è, quindi, segnato dalla tristezza; egli anzi è lieto perché si sente umile dinanzi alla sua gran fortuna, fiducioso che il suo spirito sia senza macchia, e soprattuto perfettamente consapevole della propria efficienza. La gioia del guerriero procede dal fatto che egli ha accettato la sua sorte ed ha esattamente valutato ciò che gli sta dinanzi."
Ci fu una lunga pausa. La mia tristezza era al culmine. Volevo fare qualcosa per uscire da quell'oppressione.
"Testimone, per favore, fate risuonare il vostro cattura-spiriti" disse don Genaro a Nestor.
Udii il suono forte, comico, dell'aggeggio di Nestor. Pablito si mise a ridere istericamente, e così fecero don Juan e don Genaro. Sentii un odore strano e mi resi conto che Nestor aveva emesso una scoreggia. La cosa orrendamente buffa era l'espressione di estrema serietà sul suo viso. Aveva emesso una scoreggia non per scherzo, ma perché non aveva con sé il cattura-spiriti. S'era dato da fare come poteva.
Tutti ridevano con abbandono. Che facilità avevano di passare da situazioni sublimi a situazioni estremamente comiche!
Pablito si volse improvvisamente verso di me. Voleva sapere se ero un poeta; ma prima che potessi rispondere, don Genaro fabbricò una rima:
"Carlitos è proprio ben fatto: è un damerino, un po' poeta, e matto."
Ci fu un nuovo scoppio di risa.
"Così va meglio" disse don Juan. "E ora, prima che Genaro ed io vi salutiamo, voi due potere dire tutto quello che volete. Può essere per voi l'ultima volta in cui pronunciate una parola."
Pablito fece di no con la testa, ma io avevo qualcosa da dire. Volevo esprimere la mia ammirazione, la mia meraviglia reverenziale dinanzi alla tempra straordinaria dello spirito gueriero di don Juan e don Genaro. Inciampai però sulle parole e finii per non dire nulla; o anzi, peggio, finii per emettere un suono che pareva un mio ulteriore lamento.
Don Juan scosse la testa e fece schioccare le labbra, in segno di ironica disapprovazione. Risi involontariamente; non ne era il caso, perché avevo perduto l'ultima occasione di dire loro la mia ammirazione. una stranissima sensazione cominciò a impadronirsi di me. Provavo un senso di ilarità e di gioia, una libertà deliziosa che mi induceva a ridere. Dissi a don Juan e a don Genaro che non mi importava un fico dell'esito del mio incontro con l'"ignoto": ero felice e completo, e in quel momento per me non contava che dovessi poi vivere o morire.
Don Juan e don Genaro parvero godere delle mie parole ancor più di me. Don Juan si batté le cosce ridendo. Don Genaro gettò il cappello a terra e gridò come se stesse montando un cavallo selvaggio.
"Nell'attesa ci siamo divertiti e abbiamo riso, come il testimone raccomandava" disse tutto d'un tratto don Genaro. "Ma è condizione naturale dell'ordine che esso sempre debba finire."
Guardò il cielo.
"E' quasi il momento che ci separiamo come i guerrieri della storia" proseguì. "Ma prima che ce ne andiamo per vie diverse, devo dirvi un'ultima cosa. Vi svelerò un segreto del guerriero. Forse potreste chiamarlo una predilezione del guerriero."
Si rivolse in particolare a me: una volta, ricordò, gli avevo detto che la vita del guerriero era fredda e solitaria, priva di sentimenti. Aggiunse che in quel preciso momento io ero convinto che fosse cosi.
"La vita del guerriero non ha la possibilità di essere fredda e solitaria e priva di sentimenti," proseguì "perché è fondata sul suo affetto, sulla sua devozione, sulla sua dedizione a chi egli ama. Chi egli ama? chiederete voi. Ora ve lo mostrerò."

La posizione buddhista mudra della mano, conosciuta come Bhumisparsha. La traduzione è “toccare la terra”, con le cinque dita che si stendono verso il suolo; secondo la tradizione simbolizza il Buddha che chiama la Terra come testimone della sua illuminazione:
"La terra mi è testimone."
Photo © Andrea Sirois Photography
Don Genaro si alzò e raggiunse a passi lenti una zona perfettamente piatta proprio dinanzi a noi, dieci o dodici piedi più in là. Laggiù fece uno strano gesto. Mosse le mani come se si scuotesse della polvere dal petto. Accadde allora una cosa singolare. Il lampo di una luce quasi impercettibile lo attraversò; proveniva dal terreno e parve accendere tutto il suo corpo. Egli fece una sorta di piroetta all'indietro, o più esattamente un tuffo all'indietro, e atterrò sul petto e sulle braccia. Il movimento fu eseguito con tale precisione e destrezza, che don Genaro parve essere una creatura senza peso, simile a un verme che si fosse girato su se stesso. Una volta a terra, eseguì una serie di movimenti impossibili. Si mise a scivolare a pochissima distanza dal suolo, a rotolare come se fosse stato su cuscinetti a sfere, a nuotare in cerchio, roteando con la velocità e l'agilità di un'anguilla nell'oceano.
A un certo momento cominciai ad incrociare gli occhi; poi, senza alcuna transizione, mi trovai ad osservare una palla luminosa che scivolava avanti e indietro su qualcosa che sembrava il piano di una pista di ghiaccio per pattinare scintillante di mille luci.
Era una vista sublime. Poi la palla di fuoco rallentò, si fermò, immobile. Una voce mi scosse e distrasse la mia attenzione. Era don Juan. Dapprima non riuscii a capire cose stava dicendo. Guardai di nuovo la palla di fuoco. Potei vedere soltanto don Genaro sdraiato a terra con le braccia e le gambe allargate.
La voce di don Juan era chiarissima. Parve che facesse scattare qualcosa in me, e cominciai a scrivere.
"L'amore di Genaro è il mondo" diceva don Juan. "Ora egli stava abbracciando questa enorme terra; ma siccome è così piccolo, non può far altro che nuotare in essa. Però la terra sa che Genaro la ama e gli accorda la sua protezione. Per questo la vita di Genaro è colma fino all'orlo, e la sua condizione sarà di pienezza, ovunque. Genaro vive sui sentieri del suo amore e ovunque si trovi è completo."
Don Juan si accovacciò di fronte a noi. Carezzò delicatamente il suolo.
"Questa è la predilezione di due guerrieri disse. "Questa terra, questo mondo. Per un guerriero non può esserci amore più grande."
Don Genaro si alzò e venne ad accovacciarsi vicino a don ]uan per un momento, durante il quale entrambi ci fissarono; poi, all'unisono, si sedettero a gambe incrociate.
"Solo se si ama questa terra con infessibile passione ci si può liberare della tristezza" disse don Juan. "Un guerriero è sempre pieno di gioia perché il suo amore è inalterabile e la sua amata, la terra, lo abbraccia e gli concede doni straordinari. La tristezza è solo di quelli che odiano proprio ciò che dà riparo ai loro esseri".
Don Juan carezzò la terra con tenerezza.
"Questo essere amato, che è vivo fin nei suoi ultimi recessi capisce ogni sentimento, mi ha curato delle mie pene e finalmente, quando ho compreso appieno il mio amore per esso, mi ha insegnato la libertà."

Phra Achana nella posizione di Bhumisparsha, Wat Si Chum Chapel, Sukhothai National Historical Park
Sukhothai Province, Thailand
Tacque. Il silenzio intorno a noi faceva paura. Il vento fischiava leggero e udivo in lontananza l'abbaiare solitario di un cane.
"Ascoltate questo abbaiare" aggiunse don Juan. "In questo modo la mia amata terra ora mi aiuta a portarvi dinanzi all'ultimo punto. Questo abbaiare è la cosa più triste che si possa udire."
Restammo per un momento in silenzio. L'abbaiare solitario del cane era cosi triste e la quiete intorno a noi cosi intensa che provai un'angoscia paralizzante. Tutto ciò mi faceva pensare alla mia vita, alla mia tristezza, al mio non saper dove andare, cosa fare.
"Questo abbaiare è la voce notturna di un uomo" disse don ]uan. "Viene da una casa in quella valle, a sud. Un uomo grida attraverso il suo cane, poiché sono compagni schiavi per la vita, la sua tristezza e la sua noia. Sta pregando la sua morte che venga e lo liberi dalle noiose e tetre catene della vita."
Le parole di don Juan avevano preso dentro di me una strada molto inquietante. Sapevo che parlava a me in particolare.
"Questo abbaiare, e la solitudine che crea, parlano dei sentimenti di uomini" egli aggiunse. "Uomini per i quali tutta la vita è un pomeriggio di domenica; un pomeriggio non proprio miserabile, ma caldo, noioso, fastidioso. Sudano e si agitano. Non sanno dove andare, cosa fare. Quel pomeriggio li lascia soli con il ricordo di fastidi meschini, con la noia, e poi d'improvviso non c'è più: è già notte".
Don Juan raccontò una storia che una volta gli avevo narrato: di un uomo di settantadue anni, il quale si lagnava che la sua vita fosse stata cosi breve da dargli l'impressione d'essere stato un ragazzo il giorno prima. Quell'uomo mi diceva: "Mi ricordo i pigiama che indossavo quando avevo dieci anni. Mi sembra che solo un giorno sia passato. Dov'è andato il tempo?"

"L'antidoto che elimina il veleno è qui, disse don Juan, carezzandola terra. "La spiegazione degli stregoni non può affatto liberare lo spirito. Guardate voi due. Siete arrivati alla spiegazione degli stregoni, ma non fa alcuna differenza. Siete più soli che mai, perché senza un amore inflessibile per l'essere che vi dà riparo, essere soli è solitudine."
"Solo l'amore per questo essere splendido può concedere libertà allo spirito di un guerriero, e libertà è gioia, efficienza, e abbandono dinanzi a ogni sorte. Questa è la lezione ultima. E sempre lasciata per l'ultimissimo istante: per l'istante di estrema solitudine in cui un uomo sta di fronte alla sua morte e al suo essere solo. Soltanto allora ha senso."

Don Juan e don Genaro si alzarono, stirarono le braccia e inarcarono la schiena, come se a forza di star seduti il loro corpo si fosse irrigidito. Il cuore cominciò a battermi rapido. Ci fecero alzare, Pablito e me.
"Il crepuscolo è la fenditura tra i mondi" disse don Juan. "E' la porta dell'ignoto."
Con un movimento largo del braccio indicò l'altopiano su cui sedevamo.
"Questo è il pianerottolo dinanzi alla porta."
Poi indicò il limitare settentrionale dell'altopiano.
"Questa è la porta. Di là da essa, un abisso; e di là da quell'abisso, l'ignoto."
Poi don Juan e don Genaro si volsero a Pablito e gli dissero addio. Pablito aveva gli occhi dilatati e fissi; lacrime gli scorrevano sulle guance.
Udii la voce di don Genaro che mi diceva addio, ma non quella di don Juan.
Don Juan e don Genaro s'avvicinarono a Pablito e gli sussurrarono brevemente alle orecchie. Vennero quindi verso di me. Ma prima ancora che avessero cominciato a sussurrare, provai la sensazione speciale d'essere diviso.
"Ora saremo come polvere sulla via" disse don Genaro. "Forse, un giorno, vi tornerà negli occhi."
Don Juan e don Genaro fecero un passo indietro e parvero mescolarsi alla tenebra. Pablito mi prese per un braccio e ci dicemmo addio. Poi uno strano impulso, una forza, mi fece correre con lui verso il limitare settentrionale dell'altopiano. Sentivo il suo braccio che mi teneva, quando saltammo;
poi fui solo.

martedì 5 marzo 2013

Comprensione (Fante di Coppe)


L'uccello raffigurato in questa carta guarda verso l'esterno da quella che sembra essere una gabbia. Non c'è una porta, e di fatto le sbarre stanno scomparendo. Le sbarre erano un'illusione, e questo tenero uccellino viene invitato a spiccare il volo dalla grazia e dalla libertà e dall'incoraggiamento degli altri. Egli sta per aprire le ali, pronto a volare per la prima volta. L'alba di una nuova comprensione - e cioè il fatto che la gabbia è sempre stata aperta, e il cielo è sempre stato presente, perché lo esplorassimo - all'inizio può farci sentire un po' scossi. Va bene così, è naturale essere un po' scossi, ma non lasciare che ciò oscuri l'opportunità di sperimentare la leggerezza e l'avventura che ti viene offerta, proprio insieme alla trepidazione. Accompagnati alla dolcezza e alla grazia che questo momento ispira. Senti dentro di te il palpito, schiudi le ali e sii libero!

Sei fuori dalla prigione, fuori dalla gabbia; puoi schiudere le ali - tutto il cielo ti appartiene. Tutte le stelle e la luna e il sole ti appartengono. Puoi scomparire nell'azzurro del trascendente, devi solo smettere di aggrapparti a questa gabbia; escine e tutto il cielo è tuo. Schiudi le ali e vola oltre il sole, come un'aquila. Nel cielo interiore, nel mondo interiore, la libertà è il valore più elevato - ogni altra cosa è secondaria, perfino la beatitudine, perfino l'estasi. Ci sono migliaia di fiori - un numero infinito - ma tutti quei fiori esistono in un clima di libertà.

Tao bianco e Tao nero


«Una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo»
(Rabindranath Tagore)

Narra la leggenda che il mausoleo fatto costruire nel 1632 ad Agra dall'imperatore moghul Shah Jahan in memoria della moglie preferita Arjumand Banu Begum, in origine prevedeva la costruzione di un complesso identico dalla parte opposta del fiume Yamuna decorato con marmo nero invece che bianco. Esisterebbero prove archeologiche che ne attesterebbero l'inizio della costruzione: nel progetto iniziale questo doveva essere il mausoleo dell'imperatore. I due Taj dovevano poi essere collegati con un ponte in marmo o in oro. Suo figlio, tuttavia, preoccupato per le ingenti somme di denaro già sborsate per la costruzione del primo Taj, costrinse il padre agli arresti e ne prese il posto sul trono nel 1658. Questa tesi sarebbe rafforzata dalla recente scoperta di un giardino sull'altra sponda del fiume. Se questa teoria fosse vera, in origine l'imperatore aveva intenzione di realizzare una costruzione con un asse di simmetria anche lungo la direzione est-ovest e che comprendesse anche il fiume Yamuna, che doveva divenire parte integrante del complesso.


 Se il progetto fosse stato compiuto non c'è dubbio che ne sarebbe risultata una delle maggiori meraviglie mai costruite.

Inner BeautyThomas Barbèy

il lascito del Tao - II

Tree Mind, Storm Thorgerson
Angels Fear Revisited:
Gregory Bateson’s Cybernetic Theory of Mind
Applied to Religion-Science Debates

Mary Catherine Bateson

Bateson as a Scientist
Today I want to discuss these issues in relation to Angels Fear, the volume that I completed after Gregory’s death, which he saw as his most daring approach to the conventional limits of scientific attention. I inherited the task of dealing with Gregory’s intellectual legacy, as well as the intellectual legacy of my mother, Margaret Mead, and several other scholars for whose work she became responsible along the way, so I have had considerable opportunity to think about how to treat such material. It may be that having a multiple responsibility has shaped my approach – but I decided very early on that I was not going to accept the position of Anna Freud, a woman of undoubted brilliance and conscientiousness, who became protector and arbiter of orthodoxy for the work of her father, Sigmund Freud. The creation of an orthodoxy around Freud’s work was a misapprehension of the way he wove ideas and of the way he developed and expressed them, which has had a negative effect on psychoanalysis. Nowadays in the United States, Freud’s writings seem to be read primarily in literature departments, free from the pressure to maintain an orthodox interpretation, but with little concern for their ongoing scientific usefulness.
Our responsibility, I believe, in reading Gregory Bateson as a scientist, is to avoid the impulse to orthodoxy that is antithetical to science and to find a pathway through the unorthodoxy of his expression. Gregory’s writings offer a way of looking at phenomena that is grounded in science and suggests interesting and important questions. He hoped that he might address some of the ways in which scientific explanation inspires technological exploitation but fails to inspire behaviors that might, for instance, preserve species diversity and slow climate change. The “pattern which connects  proposes not only similarity but identification – even empathy.
At the same time, unearthing the value in this work and integrating it with ongoing thinking in anthropology, biology, and psychiatry can be daunting. Often what we see in Gregory’s work is an uncompleted process, where he himself was still groping for the next step in his phrasing. The challenge is not so much to stand guard over the exact words but to continue to develop and test the thought. This is the challenge I had to deal with in putting together Angels Fear, selecting from a stack of manuscripts that only vaguely fit together and did not reach the goal he was searching for, so that it was important, as I wrote additional material, to preserve the tentativeness of it. For instance, I am convinced that Gregory’s “metalogues” gave him a literary device for exploring ideas without committing himself to the structured exposition that a more usual form of essay would have required. The metalogues, by their fluidity, proclaim the search that was still in flux. Although some parts of the metalogues did actually happen, and although I imitated them sometimes in actual conversation with Gregory and have written some since, they are a form of fiction.


lunedì 4 marzo 2013

Taoship


Anni fa, prima che tanti treni su linee secondarie venissero soppressi, una donna dalla fronte alta e lentigginosa e una matassa crespa di capelli rossi, si presentò in stazione per informarsi riguardo alla spedizione di certi mobili.
L'impiegato faceva sempre un po' lo spiritoso con le donne, specie con quelle bruttine, che sembravano apprezzare.
- Mobili? - disse, come se nessuno avesse mai avuto prima un'idea simile. - Dunque, vediamo. Di che genere di mobili stiamo parlando?
- Un tavolo da pranzo con sei sedie. Una camera da letto completa, un divano, un tavolo basso, alcuni tavolini, una lampada a stelo. E anche una cristalliera e una credenza.
- Accidenti. Una casa intera.
- Non direi proprio, - ribatté lei. - Mancano le cose di cucina e ci sono mobili per una sola camera da letto.
Aveva tutti i denti ammucchiati davanti, come se fossero pronti a litigare.
- Le servirà il furgone, - fece lui.
- No, voglio spedirli per ferrovia. Vanno a ovest, nel Saskatchewan.
Gli si rivolgeva a voce alta, come se fosse sordo o scemo, e c'era qualcosa di strano nel modo in cui pronunciava le parole. Un accento. Olandese, pensò lui - c'era parecchio movimento di olandesi in quella zona -, anche se, delle donne olandesi, a questa mancava la stazza o la bella carnagione rosea o i capelli biondi. Poteva essere sotto i quaranta, ma che importanza aveva? Miss bellezza non doveva esserlo stata mai. 
L'uomo si fece molto professionale.
- Prima di tutto le ci vorrà il furgone per trasferire la roba qui da dovunque si trovi. E poi, sarà meglio controllare che in questo posto nel Saskatchewan ci passi il treno. Se no, dovrò farla venire a prendere, che so, a Regina.
- E’ Gdynia, - disse. - Il treno ci passa.
Lui prese una guida cincischiata che stava appesa a un chiodo, e le chiese come si scriveva. Lei si servì della matita a sua volta legata a una corda e scrisse su un pezzo di carta estratto dalla borsetta: GDYNIA.
- E che razza di nome sarebbe?
Disse che non lo sapeva.
Le prese la matita per scorrere rigo a rigo.
- Un sacco di posti da quelle parti sono pieni di cechi, di ungheresi e di ucraini, - commentò. Mentre lo diceva gli venne in mente che la donna poteva essere una di loro. Be', e allora? Stava solo esprimendo un dato di fatto.
- Eccola qui. Tutto a posto. C'è la ferrovia.
- Sì, - disse lei. - Voglio spedire la roba venerdì. E’ possibile?
- Possiamo spedirla, ma non posso prometterle che arriverà in un certo giorno, - fece lui. - Tutto dipende dalle priorità. Ci sarà qualcuno a occuparsene quando arriva?
- Sì.
- E’ un treno misto, merci e passeggeri, quello di venerdì, delle quattordici e diciotto. Il furgone passa a ritirare la roba venerdì mattina. Lei abita qui in paese?
Annuì, mentre scriveva il suo indirizzo: 106, Exhibition Road.
Era da poco che in comune avevano distribuito i numeri civici, perciò lui non riusciva a immaginare il punto esatto, pur sapendo dove si trovava Exhibition Road. Se lei avesse fatto il nome di McCauley, in quel momento, l'uomo avrebbe forse mostrato maggior interesse, e le cose avrebbero magari preso una piega diversa. C'erano abitazioni nuove in quella zona, costruite dopo il conflitto, anche se la gente le chiamava le «case del tempo di guerra». Immaginò che si trattasse di una di quelle. 
- Pagamento alla spedizione, - le disse.
- Voglio anche un biglietto per me sullo stesso treno. Venerdì pomeriggio.
- Stessa destinazione?
- Sì.
- Può viaggiare sullo stesso treno fino a Toronto, ma poi dovrà aspettare il transcontinentale che parte alle dieci e mezza di sera. Vuole un vagone letto o regolare? Nel vagone letto avrà la cuccetta, in quello regolare dovrà stare seduta.
Disse che seduta andava bene.
- A Sudbury dovrà aspettare il Montreal, ma senza scendere: smistano solo le carrozze, e le attaccano alla motrice del Montreal. Lo stesso a Port Arthur, e poi a Kenora. Lei resta sul treno fino a Regina; lì invece cambia, e prende il locale.
Annuì, come per dirgli di non farla lunga e di darle il biglietto.
Rallentando, lui disse: - Ma non le assicuro che i mobili arriveranno insieme a lei, anzi, credo che ci metteranno un paio di giorni in più. E’ questione di precedenze. Qualcuno viene a prenderla?
- Sì.
- Bene. Perché è probabile che non sia granché, come stazione. Da quelle parti, i paesi non sono come qui. Sono posti abbastanza rudimentali.
Pagò il suo biglietto, sfilando il denaro da un rotolo di banconote in un sacchetto di tela che teneva in borsa.
Come una vecchietta. Contò anche il resto. Ma non come avrebbe fatto una vecchia. Passò in rassegna rapidamente gli spiccioli sulla mano, ma era chiaro che non le stava sfuggendo un centesimo. Poi girò sui tacchi e se ne andò senza salutare.
- A venerdì, - le disse lui.
In quella tiepida giornata di settembre, la donna indossava un soprabito lungo e semplice, su scarpe sfondate coi lacci, e calzini alla caviglia.
L'impiegato si stava versando del caffè dal thermos quando lei tornò indietro e batté sul vetro dello sportello.
- I mobili che spedisco, - disse. - E tutta roba buona, come nuova. Non vorrei che si graffiassero, o si ammaccassero, che si danneggiassero, insomma. E non vorrei neppure che arrivassero puzzolenti di carro bestiame.
- Be', senta, - disse lui. - Qui in ferrovia siamo piuttosto esperti in fatto di spedizioni. Tendiamo a non usare gli stessi vagoni per mobili e maiali, ad esempio.


Marc Chagall, Io e il mio paese, 1911, MoMa, NYC

venerdì 1 marzo 2013

fattori mentali del Tao

© Igor Morski
La proposta degli autori del modello di emergenza co-dipendente senza Sé per l'analisi della coscienza è ulteriormente approfondita attraverso la discussione degli elementi mentali di base:

Basic Element Analysis
We have already seen how a moment of consciousness is analyzed into subject, object, and mental factors that bind them together. This schematization was present in the earliest Abhidharma but was greatly elaborated in a technique called basic element (dharma) analysis, which reached its peak of eloquence in the Abhidharmakosa of Vasubandhu. (It is from this work that we have taken the classification of mental factors.)
The term for basic element in Sanskrit is dharma. Its most general meaning in a psychological context is "phenomenon" - not in the Kantian sense where phenomena are opposed to noumena but simply in the ordinary sense of something that occurs, arises, or is found in experience. In its more technical sense, it refers to an ultimate particular, particle, or element that is reached in an analytic examination. In basic element analysis, moments of experience (the dharmas) were considered analytically irreducible units; they were, in fact, called ultimate realities, whereas the coherences of daily life that were composed of these elements - a person, a house - were called conventional realities.
This idea that experience, or what the phenomenologist would call the life-world, can be analyzed into a more fundamental set of constituents was also a central element in Husserl's phenomenological project. This project broke down because it was, among other things, purely abstract and theoretical. Basic element analysis, on the other hand, was much more successful because it was generated from an open-ended, embodied reflection: it arose as a way of codifying and interpreting the results of the mindfulness/awareness examination of experience. Therefore, even when basic element analysis received certain kinds of devastating criticism from philosophers such as Nagarjuna, it could nonetheless survive as a valuable practice, though seen in a different light.
On a more theoretical level, philosophers might recognize some parallels between basic element analysis and the analytic, rationalist tradition in the West as exemplified by Leibniz, Frege, Russell, and the early Wittgenstein. In both traditions there is a concern with analyzing complex aggregates of societies-whether these be things in the world, linguistic or logical descriptions, mental representations, or direct experience-into their simple and ultimate constituents. Minsky, for example, upholds this analytic tradition when he writes that his "agents of the mind could be the long-sought 'particles' that ... theories [of mind] need." Such reductionism is almost always accompanied by realism: one adopts a realist istance toward whatever one claims as one's privileged basis, one's ultimate ground.
Here, however, we come upon an interesting difference between Western rationalism and the rationalism embodied in the Abhidharma. In the latter, the designation of basic elements as ultimate reality, we are told, was not an assertion that the basic elements were ontological entities in the sense of being substantially existent. Surely this is an interesting case study-we have here a philosophical system, a reductive system, in which reductive basic elements are postulated as ultimate realities but in which those ultimate realities are not given ontological status in the usual sense. How can that be? Emergents, of course, do not have the status of ontological entities (substances). Might we have a system here in which the basic elements are themselves emergents?
This question is all the more interesting because basic element analysis was not simply an abstract, theoretical exercise. It had both a descriptive and a pragmatic motivation. The concern of the meditator is to break the wheel of conditioned origination and become aware, wise, and free. She is told that she can actually experientially catch herself (within this emergent society of the wheel of the twelve links) at the moment of craving and can begin to undo her conditioning. Will a basic element analysis provide clarity that will help in this task?
We may remember that in basic element analysis each element, each moment of consciousness, consists of the consciousness itself (called, in this system, the primary mind) and its mental factors. The (momentary) mental factors are what bind the (momentary) object (which is, of course, always in one of the six sense fields). The specific quality of each moment of consciousness and its karmic effects on future moments depend upon which mental factors are present.
The relationship between consciousness and the mental factors seems remarkably similar to the relation between Minskian agencies and agents. The contemporary Tibetan scholar Geshe Rabten puts it thus: "The term 'primary mind' denotes the totality of a sensory or mental state composed of a variety of mental factors. A primary mind is like a hand whereas the mental factors are like the individual fingers, the palm, and so forth. The character of a primary mind is thus determined by its constituent mental factors." A hand is an agency of which the fingers, palm, etc., are agents; it is also an agent of the body. These are different levels of description; neither agent nor agency would exist without the other. Like the hand, we could call the primary mind an emergent.
We would do well to look once again at the five omnipresent mental factors: contact, feeling, discernment, intention, and attention.

1 Contact
Contact is a form of rapport between the senses and their objects, a matching of sensitivity between a sense and an object in the sense field. It is a relational property involving three terms: one of the six senses, a material or mental object, and the consciousness based upon these two. There is evidence to suggest that this sensitivity was conceived as a dynamic process giving rise to emergence: the evidence is that contact, as a process, is described as being both a cause and an effect. As a cause, contact is the coming together of three distinct items--a sense, an object, and the potential for awareness. As an effect, contact is that which results from this process of coming together-a condition of harmony or rapport among the three items. This rapport is not the property of either a sense, an object, or an awareness per se. It is a property of the processes by which they interact, in other words, an emergent property. Because of one's conditioning, one thinks that contact-sense organ, sense field, and sense consciousness--implies a self; in this analysis it may be seen in a neutral, "scientific" light as an emergence.
This conception of contact strikes us as quite remarkable. It could be applied almost word-for-word to our discussion of vision as a unitary phenomenon. In a culture that did not have access to scientific notions of circular causality, feedback/feedforward, and emergent properties, nor to logical formalisms for handling self-reference, the only recourse for expressing an emergent may have been to say that a process is both cause and effect. Early Buddhism developed the idea of an emergent both at the (relatively) global level of codependent origination and the (relatively) local level of contact; this development was of central importance to the analysis of the arising of experience without a self. This suggests that our current formulations of emergence are not simply logical tricks soon to be replaced by some other way of conceptualizing phenomena; rather, our modem forms may be the rediscovery of a basic aspect of human experience.

2 Feeling
We have already discussed feeling as the second aggregate and the seventh link in the circle of codependent arising . Normally feelings lead instantly to reactions that perpetuate karmic conditioning. Bare feelings, however, are neutral; it is one's response that is, in the language of mental factor analysis, either wholesome or unwholesome. Normally we never actually experience our feelings because the mind jumps so quickly to the reaction. Even a neutral feeling (often even more threatening to the sense of self than a displeasurable feeling because a neutral feeling seems less self-relevant) leads quickly to boredom and to the finding of any possible physical or mental occupation . Meditators often report that they discover for the first time, in mindfulness practice, what it is like actually to experience a feeling.

3 Discernment
Perception (discernment)/impulse was discussed as the third aggregate. It normally arises inseparably with feeling. Through mindfulness, however, the meditator may recognize impulses of passion, aggression, and ignoring for what they are - impulses that need not automatically lead to action. In terms of mental factor analysis, one may thus be able to choose wholesome rather than unwholesome actions. (Eventually , when sufficient freedom from habitual patterns has been obtained, perception/ discernements can - according to some later formulations - automatically give rise not to self-based impulses of passion, aggression, and ignoring but to impulses of wisdom and compassionate action.)

4 Intention
Intention is an extremely important process, which functions to arouse and sustain the activities of consciousness (with its mental factors) from moment to moment . Intention is the manner in which the tendency to volitional action (the second link ) manifests itself in the mind at any given moment . There are no volitional actions without intention . Thus, karma is sometimes said to be the process of intention itself- that which leaves traces on which future habits will be based. Normally we act so rapidly and compulsively that we do not see intentions. Some schools of mindfulness training encourage meditators to spend periods of time in which they slow down activities so that they may become aware of the intentions that precede even very trivial volitional actions such as changing position when one becomes uncomfortable. Awareness of intention is thus a direct aid to cutting the chain of conditioned origination at the craving link.

5 Attention
Attention, the final factor of the five omnipresent mental factors, arises in interaction with intention. Intention directs consciousness and the other mental factors toward some general area, at which point attention moves them toward specific features. (Remember the interaction of agents in Minsky's description of the agency Builder.) Attention focuses and holds consciousness on some object. When accompanied by apperception, attention serves as the basis for the object-ascertaining factors of recollection and mindfulness, as well as the positive mental factor of alertness.
These five factors, when joined with various of the object-ascertaining and variable factors, produce the character of each moment of consciousness. The mental factors present at a given moment interact with each other such that the quality of each factor as well as the resultant consciousness is an emergent.
Ego-self, then, is the historical pattern among moment-to-moment emergent formations. To make use of a scientific metaphor, we could say that such traces (karma) are one's experiential ontogeny (including but not restricted to learning). Here ontogeny is understood not as a series of transitions from one state to another but as a process of becoming that is conditioned by past structures, while maintaining structural integrity from moment to moment. On an even larger scale, karma also expresses phylogeny, for it conditions experience through the accumulated and collective history of our species.
The precise nature of the lists and definitions of mental factors should not be taken too compulsively. Different schools produced different lists of factors. Different schools also disagreed (and disagree to this day) about how important it is for practitioners to study such lists (they were traditionally burned in Zen), about the stage of development at which the individual should study the Abhidharma in general and such lists in particular (given that he should study them at all) and about whether and how such lists should be used in meditative contemplation. All schools of mindfulness/awareness meditation, however, agree that intense mindfulness of what arises from moment to moment in the mind is necessary if one is to start to undo karmic conditioning.
We have achieved two main goals by this analysis: First, we have seen how both a single moment of consciousness and the causal coherence of moments of consciousness over time can be formulated in the language of emergence without the postulation of a self or any other ontological entity. Second, we have seen how such formulations can be both experientially descriptive and pragmatically oriented. This latter point bears further discussion since the notion of pragmatics may take an unfamiliar cast in a system that aims to undercut volitional (egocentric) action.