venerdì 11 gennaio 2013

il Cammino del Tao: consapevolezza e mente


  •                  La consapevolezza
  21.  La consapevolezza conduce alla vita eterna,
l'inconsapevolezza alla morte.
Chi si è risvegliato alla propria vera natura non muore.
L’inconsapevole vive come se fosse già morto.
  22.    Il saggio, colui che ha compreso,
trova la sua gioia nella consapevolezza,
trova la sua gioia
nel cammino tracciato dai Buddha.
  23.    Perciò medita con perseveranza
per raggiungere il nirvana,
la libertà ultima.
  24.    Perciò svegliati, osservati,
agisci con purezza e con attenzione
conformemente alla legge eterna
e la tua gloria crescerà.
  25.    Con la consapevolezza,
con la padronanza di sé,
il saggio si costruisce un'isola
che nessun diluvio può sommergere.
  26.     L’inconsapevole agisce distrattamente.
Il saggio invece custodisce la consapevolezza
come il suo tesoro più prezioso.
  27.     Perciò non lasciarti andare all'inerzia
e non lasciarti trascinare dai desideri.
Concentra la tua energia nella meditazione
e scopri la felicità più grande.
  28.     Squarciato il velo dell'inconsapevolezza,
dall'alto della torre della saggezza
il saggio contempla l'umanità sofferente
come chi dalla vetta di una montagna
guarda verso gli abitanti della pianura.
  29.     Attento fra i distratti,
desto fra i dormienti,
il saggio si stacca dalla massa
come un veloce cavallo da corsa.
  30.    Grazie alla consapevolezza
Indra è divenuto signore degli dei.
Sempre preziosa è la consapevolezza,
sempre rovinosa l'inconsapevolezza.
  31.    Perciò il bhikshu che ama la consapevolezza
e teme il sonno dell'inconsapevolezza
brucia ogni legame
con il fuoco della sua pratica.
  32.    Il bhikshu che ama la consapevolezza
e teme il sonno dell'inconsapevolezza
non può ricadere nell'illusione.
Ha trovato la via verso la liberazione.

  •           La mente
33.  Come il fabbro
raddrizza una freccia,
così il saggio governa i suoi pensieri,
per loro natura instabili, irrequieti
e difficili da controllare.
34.  I pensieri fremono e si dibattono
per sfuggire alla morte
come pesci tolti

alla loro dimora liquida
e gettati sulla terraferma.
35.  La padronanza della propria mente,
ribelle, capricciosa e vagabonda,
è la via verso la felicità.
36.  Il saggio osserva continuamente
i propri pensieri,
che sono sottili, elusivi ed erranti.
Questa è la via verso la felicità.
37.  Pensieri, incorporei ed erranti,
vagano lontano.
Raccoglili nella caverna del cuore
e liberati dalla schiavitù
del desiderio e della morte.
38.  Come può una mente agitata
comprendere la legge eterna?
Se la serenità della mente è turbata,
la saggezza non può manifestarsi.
39.  Il risvegliato,
colui la cui mente è serena
e ha trasceso il dilemma

del bene e del male,
è libero da ogni timore.
40.  Questo tuo corpo è fragile
come un vaso di coccio.
Fai della tua mente una fortezza
e combatti le tentazioni
con l'arma della saggezza.
41.  Ben presto questo corpo
giacerà sulla terra,
privo di coscienza,
inutile come un ceppo bruciato.
42.  Nessuno, neppure
il tuo peggior nemico
può nuocerti quanto una mente indisciplinata.
43.  Ma una mente disciplinata
è un'alleata preziosa.
Nessuno, né tua madre,

né tuo padre,
né i tuoi amici,
può esserti di altrettanto aiuto.


il Tao della programmazione: Libro 3 - Progettazione

Geoffrey James, 1987
Libro 3 - Progettazione

Così parlò il maestro programmatore:
“Quando il programma viene testato, è troppo tardi per fare modifiche nel progetto.”

3.1

C'era una volta un uomo che andò a una fiera di computer. Il primo giorno, entrando, disse alla guardia sulla porta:

“Io sono un grande ladro, famoso per le mie imprese di taccheggio. Siate preparati, perchè questa fiera non sfuggirà alle mie brame.”

Questo discorso infastidì molto la guardia, perchè c'erano milioni di dollari di attrezzature all'interno, così osservò attentamente l'uomo. Ma l'uomo si limitava a girovagare da padiglione a padiglione, canticchiando sommessamente.

Quando l'uomo se ne andò, la guardia lo portò da parte e perquisì i suoi abiti, ma non trovò nulla.
Il giorno successivo della fiera, l'uomo tornò e infastidì la guardia dicendo: “Ieri sono sfuggito con un vasto bottino, ma oggi sarà ancora meglio.” Così la guardia iniziò a tenerlo d'occhio più attentamente, ma senza risultato.

L'ultimo giorno della fiera, la guardia non poteva più trattenere la sua curiosità. “Signor ladro”, disse, “sono così perplesso da non riuscire a capacitarmi. Per favore mi illumini. Che cos'è che sta rubando?”

L'uomo sorrise. “Sto rubando idee”, disse.

3.2

C'era una volta un maestro programmatore che scriveva programmi non strutturati. Un programmatore novizio, cercando di imitarlo, iniziò anche lui a scrivere programmi non strutturati. Quando il novizio chiese al maestro di valutare i suoi progressi, il maestro lo rimproverò per aver scritto programmi non strutturati, dicendo: “Ciò che è appropriato per il maestro non è appropriato per l'allievo. Devi comprendere il Tao prima di trascendere la struttura.”

3.3

C'era una volta un programmatore che lavorava alla corte del Signore di Wu. Il signore chiese al programmatore: “Che cosa è più facile da progettare: un programma di contabilità o un sistema operativo?”

“Un sistema operativo”, rispose il programmatore.

Il signore fece un'espressione di incredulità. “Sicuramente un programma di contabilità è banale in confronto alla complessità di un sistema operativo”, disse.

“Non è così”, disse il programmatore, “progettando un programma di contabilità, il programmatore opera da mediatore tra persone che hanno idee diverse: come deve operare, come devono apparire i suoi rapporti, e come deve conformarsi alle leggi sulle tasse. Invece, un sistema operativo non è limitato dalle apparenze esterne. Quando progetta un sistema operativo, il programmatore cerca l'armonia più semplice tra macchina e idee. Ecco perchè un sistema operativo è più facile da progettare.”

Il Signore di Wu annuì e sorrise. “Sono d'accordo su tutto, ma quale è più facile da debuggare?”

Il programmatore non rispose.

3.4

Un manager andò dal maestro programmatore e gli mostrò il documento dei requisiti per una nuova applicazione. Il manager chiese al maestro: “Quanto tempo servirà per progettare questo sistema se gli assegno cinque programmatori?”

“Servirà un anno”, disse prontamente il maestro.

“Ma questo sistema ci serve immediatamente o anche prima! Quanto tempo servirà se gli assegno dieci programmatori?”

Il maestro programmatore corrugò la fronte. “In quel caso, serviranno due anni.”

“E se gli assegno cento programmatori?”

Il maestro programmatore alzò le spalle. “Allora il progetto non sarà mai completato”, disse.

Il Tao della Programmazione: Libro 2

mercoledì 9 gennaio 2013

Tao incompleto


XI - L'UTILITÀ DEL NON-ESSERE

Trenta raggi si uniscono in un solo mozzo
e nel suo non-essere si ha l'utilità del carro,
s'impasta l'argilla per fare un vaso
e nel suo non-essere si ha l'utilità del vaso,
s'aprono porte e finestre per fare una casa
e nel suo non-essere si ha l'utilità della casa.
Perciò l'essere costituisce l'oggetto
e il non-essere costituisce l'utilità.


Nella descrizione dell'emergenza dei processi mentali e della coscienza un punto centrale, per nulla evidente - anzi, invisibile -, è quello dell'assenza, come descritto da Terrence W. Deacon:
La scienza è arrivata al punto in cui possiamo disporre con precisione singoli atomi su una superficie metallica, o identificare il continente degli antenati di una persona analizzando il DNA dei suoi capelli. Ironia della sorte, però, ci manca una comprensione scientifica di come possano le frasi scritte in questo libro essere riferite ad atomi, DNA o qualunque altra cosa. È un problema serio. In sostanza significa che il meglio della nostra scienza ― quell’insieme di teorie che presumibilmente arriva più vicino a spiegare ogni cosa ― non include proprio questa fondamentalissima caratteristica distintiva del fatto che io sono io e tu, lettore, sei tu. In effetti, la nostra attuale “teoria del tutto” implica che noi non esistiamo, se non come collezioni di atomi.
Cos’è che manca, dunque? Per dirlo con un po’ di ironia, e in stile enigmatico, manca qualcosa che manca.
Consideriamo i seguenti fatti familiari. Il significato di una frase non è il gruppo di scarabocchi che rappresentano le lettere su un pezzo di carta o su uno schermo. Non sta nei suoni che questi scarabocchi possono farci emettere. Non è neppure il ronzio dei neuroni nel cervello di chi legge. Ciò che significa una frase, e ciò cui essa si riferisce, manca proprio delle proprietà che le cose devono tipicamente avere per fare una differenza nel mondo. L’informazione trasmessa da questa frase non ha massa, né quantità di moto, né carica elettrica, né solidità, e neppure una chiara estensione nello spazio, dentro di noi o intorno a noi, o da qualsiasi altra parte. Più sconcertante ancora, le frasi che state leggendo in questo momento potrebbero essere insensate, e in tal caso non ci sarebbe nulla, nel mondo, cui potrebbero corrispondere. Ma persino questa proprietà di pretendere di avere un significato farà una differenza concreta nel mondo se influenzerà, in un modo o nell’altro, il pensiero o l’azione di una persona.
Ovviamente, malgrado questo qualcosa di non presente che caratterizza il contenuto dei miei pensieri e il senso di queste parole, le ho scritte per i significati che ― forse ― potrebbero trasmettere. Ed è presumibile che questo sia il motivo per cui tu, lettore, stai focalizzando il tuo sguardo su di esse, e che potrebbe spingerti a fare un certo sforzo mentale per trovarci un senso. In altre parole, il contenuto di questa, o di ogni altra frase ― qualcosa che non è una cosa ― ha conseguenze fisiche. Ma come fa?
Il significato non è la sola cosa che presenti un problema di questo tipo. Parecchie altre relazioni del nostro quotidiano condividono questo aspetto problematico. La funzione di una pala non è la pala né il buco nel terreno, ma la possibilità di fare buchi più facilmente che ci mette a disposizione. Ciò a cui si riferisce la mano che fa un gesto di saluto non è il movimento della mano, e neppure la convergenza fisica degli amici, ma l’avvio di una possibile condivisione di pensieri ed esperienze richiamate alla memoria. Lo scopo del mio scrivere questo libro non è battere sui tasti, né depositare inchiostro su pezzi di carta, e neppure produrre e far distribuire un gran numero di copie di un libro come oggetto materiale; sta nel condividere qualcosa che non è contenuto in nessuno di questi processi e oggetti della realtà fisica: idee. E, bizzarramente, è proprio perché queste idee mancano di simili attributi fisici che possono essere condivise con decine di migliaia di lettori senza mai esaurirsi. Cosa ancora più enigmatica, accertare il valore di questa impresa è quasi impossibile da ricollegare a qualche specifica conseguenza fisica. È qualcosa di quasi interamente virtuale: forse nulla più che rendere certe idee più facili da concepire o, se i miei sospetti dovessero risultare corretti, accrescere la nostra sensazione di avere un posto nell’universo.
Ogni fenomeno di questo genere ― funzioni, riferimenti, propositi, valori ― è in qual-che modo incompleto. C’è qualcosa che non è lì. Senza questo “qualcosa” che manca non sarebbero che puri e semplici eventi od oggetti fisici, destituiti di questi altrimenti curiosi attributi. Nostalgia, desiderio, passione, appetito, lutto, perdita, aspirazione ― son tutti basati su un’analoga intrinseca incompletezza, un “essere privi” che di essi è parte integrante.
Nel riflettere su questo curioso stato delle cose, mi colpisce il fatto che non c’è una specifica parola che sembri riferirsi a questo elusivo carattere delle cose di questo tipo. Quindi, a rischio di iniziare questa discussione con un goffo neologismo, mi riferirò a questo carattere chiamandolo assenziale, per denotare i fenomeni la cui esistenza è determinata in riferimento a un’essenziale assenza. Assenza che può essere di uno stato di cose ancora non realizzatosi, dello specifico e separato oggetto di una rappresentazione, di un tipo di proprietà generale che potrebbe esistere o no, una qualità astratta, un’esperienza e così via; ma non ciò che effettivamente è presente. Questa paradossale qualità intrinseca di esistere in rapporto a qualcosa di mancante, separato e che può anche non esistere è irrilevante quando si tratta di cose inanimate, ma è una delle proprietà che definiscono la vita e la mente. Una teoria completa del mondo che includa noi stessi e la nostra esperienza del mondo deve trovare un senso al modo in cui siamo formati da questo specifico tipo di assenze e in cui da esse emergiamo. Ciò che è assente conta, eppure la nostra attuale comprensione dell’universo fisico suggerisce che non dovrebbe avere alcuna importanza. Dalle scienze naturali sembra essere assente ogni ruolo causale per l’assenza.
(...)
Finché continueremo a non essere in grado di spiegare in che modo queste curiose relazioni tra qualcosa che non c’è e ciò che è presente possano fare una differenza nel mondo, resteremo ciechi alle possibilità di un nuovo vasto reame del sapere. Prevedo un tempo, nel prossimo futuro, in cui questi paraocchi finalmente cadranno, e si aprirà una porta che mette in comunicazione queste due culture attualmente incompatibili del sapere, quella fisica da una parte e quella del significato dall’altra; e questa casa divisa si ritroverà unita.
In questo libro propongo un modesto passo iniziale verso l’obiettivo di unificare queste due maniere di concettualizzare il mondo e il posto che occupiamo in esso, che per tanto tempo sono rimaste isolate e apparentemente incompatibili. Sono consapevole che nel-l’articolare questi pensieri corro il rischio di incorrere in una sorta di eresia scientifica. Quasi certamente, molte reazioni iniziali saranno sprezzanti: “Ma questo genere di idee non era stato relegato da un bel pezzo nella pattumiera della storia?” “Influenza causale dell’assenza? Poesia, non scienza”. “Scemenze mistiche”.
(...)
L’attuale esclusione di queste relazioni da ogni legittimo ruolo nelle nostre teorie sul funzionamento del mondo ha implicitamente negato la nostra stessa esistenza.

yucaTa(o)n

Nel corso degli anni, come accade con molti personaggi celebri misteriosi o scomparsi, innumerevoli persone hanno sostenuto di aver incontrato Carlos Castaneda, se non il suo maestro Don Juan, o di essersi direttamente spacciate per lui.
Andrea De Carlo e Federico Fellini sembra siano state tra le rare persone che autenticamente lo hanno conosciuto, come narrato dal primo in questo tra i suoi primi lavori.
Dall'introduzione:
Alla fine del novembre 1984 ero a Milano, nella soffitta di una casa del centro dove un tempo avevano alloggiato i servitori di qualche buona famiglia. Mi ricordo la traspirazione costante attraverso l' intonaco del tetto, il freddo umido dalla parete nord. Mia figlia era nata da poche settimane, la nostra comunicazione era apprensiva e diffidente, fatta di strilli acuti, gesti cauti; non avevamo ancora nessun linguaggio comune. Il mio terzo romanzo stava per uscire, aspettavo di vedere che reazioni avrebbe avuto. L'unica cosa rasserenante che facevo era andare ogni giorno in una palestra vicino a casa, e restarci piu' che potevo. La citta' fuori mi assediava, grigia e implacabile; non capivo perche' ci ero tornato, come un prigioniero che torna a consegnarsi proprio quando e' quasi riuscito a scappare. Avevo passato anni sospeso verso altri possibili luoghi e modi, mi sembrava di essere inchiodato a terra per la prima volta nella mia vita, serrato dai dati di fatto, senza vie di scampo. Poi una sera mi ha telefonato Federico Fellini. L'avevo conosciuto qualche anno prima per caso a un premio letterario, e in breve eravamo diventati molto amici, malgrado le nostre eta' lontane. Avevo lavorato a un suo film, l'avevo seguito attraverso l'Europa e per Roma lungo i percorsi strani delle sue curiosita' e frequentazioni. Non era un rapporto maestro discepolo, o regista assistente; il nostro interesse reciproco era possibile anche per la mia autonomia ostinata e distratta di chi ha un altro mondo e un altro lavoro a disposizione. Il cinema mi incuriosiva e mi annoiava quasi in misura uguale: la macchina surriscaldata, faticosa, lenta, frenetica, insistente, cinica, finta ingenua; e i modi complicati per metterla in moto e alimentarla lungo il percorso. C'ero stato dentro per un po', e alla fine mi aveva fatto lo stesso effetto di Roma, mi aveva messo voglia di scapparmene via, tornare a scrivere romanzi. Con Fellini ci sentivamo ancora, molto piu' di rado di un tempo, con una traccia di incertezza dovuta alla distanza. Dopo la piu' assidua delle frequentazioni, gli infiniti racconti e i pranzi e le cene e gli incontri di persone e i viaggi in macchina, ognuno dei due si era ritratto nella sua vita, benche' non del tutto. Tendevamo ancora le antenne, ogni tanto; la curiosita' non era svanita. Per questo una sera di novembre dell'84 Fellini mi ha telefonato, mentre io ero in uno stato di vera mancanza di speranze, e nella sua voce flautata mi ha chiesto se avevo voglia di scrivere insieme a lui un film basato sui libri di Carlos Castaneda. Mi ha raccontato che inseguiva l' idea da anni, ma solo da pochi giorni era riuscito ad arrivarci vicino. Mi ha raccontato che una notte era con una sua amica in macchina sul grande raccordo anulare di Roma, e si erano messi a litigare. La lite era degenerata, finche' la sua amica aveva fermato e gli aveva urlato di scendere, era ripartita a tutta velocita'. Fellini era rimasto a piedi sul bordo della strada, scosso dalle onde d' aria e dal rumore delle macchine e dei camion in corsa nel buio, senza sapere cosa fare. Poi d'improvviso dei fari lo avevano abbagliato, una grande limousine nera gli si era fermata di fianco, un finestrino si era abbassato. Una ragazza molto pallida si era affacciata, gli aveva chiesto "Lei e' il signor Fellini?" Fellini aveva detto di si'; la ragazza gli aveva fatto cenno di salire. Dentro, seduto sul sedile di dietro, c'era Carlos Castaneda. "So che mi sta cercando da tempo", aveva detto. Non era una storia molto credibile, ma d' altra parte quasi tutti i racconti di Fellini avevano questo spirito nonrealistico, da sogni simbolici o allegorici; credo che nemmeno lui si aspettasse di vederseli accettati in senso letterale. Quello che contava era il fondo della faccenda: si era messo in contatto con Carlos Castaneda, avremmo potuto incontrarlo a Los Angeles e da li' andare con lui in Messico, a visitare i luoghi delle sue storie. Gli ho detto subito che ci stavo, senza pensarci neanche. Ero in un momento in cui avrei accettato qualunque invito a partire, credo: sarei andato a fare il mercenario, se me l'avessero proposto; a fare il missionario. Aspettavo solo un' occasione per scappare via dai problemi della mia vita, pensare ad altro, sparire. Ho preparato la valigia subito, in vista di un altro clima; due giorni dopo ero a Roma. Poi sull' aereo che ci portava a Los Angeles io e Fellini ci guardavamo con una strana miscela di divertimento, diffidenza, aspettative, dubbi. Fellini si era portato dietro tutti i libri di Castaneda in una borsa, insieme al lungo saggio di un giornalista che pretendeva di smascherarlo come impostore. I libri di Castaneda non ero mai riuscito a leggerli fino in fondo, anche se ci avevo provato diverse volte. Forse mi aveva infastidito la cultura esotista e oscura di cui erano impregnati, o il mito generazionale che gli si era creato intorno; oppure era solo colpa della mia attenzione fluttuante. In ogni caso anche sull'aereo per Los Angeles li ho sfogliati senza metodo, senza riuscire a concentrarmi abbastanza. Fellini da parte sua era apprensivo almeno quanto eccitato. Non viaggiava spesso, ne' volentieri, benche' ricevesse ogni giorno inviti da tutte le parti del mondo. Una volta a Fiumicino aveva indicato un fossato d'acqua tra il ciglio di una strada secondaria e un campo di grano verde, mi aveva detto "In fondo c'e' bisogno di andare in Cina, per vedere la Cina?" A volte questo atteggiamento mi affascinava, a volte mi irritava. Ma era fatto cosi', e la sua fantasia lavorava meglio in condizioni controllate; per questo aveva bisogno di ricostruire il mare e il cielo nei teatri di posa di Cinecitta', invece di filmarli dal vero. Era anche stanco dei film che faceva, e della fatica che gli costava metterli in piedi. Era alla ricerca di una storia che lo portasse fuori dal vecchio circo barocco in cui si sentiva rinchiuso. Gli aspetti esoterici e allucinatori di Castaneda lo attraevano e lo preoccupavano, alimentavano la sua curiosita'. A un certo punto mentre volavamo sopra l'oceano mi ha detto "Chissa' che funghi allucinogeni ci fara' mangiare? Chissa' che razza di rituali dovremo fare?" Paura e desiderio di vere sorprese gli brillavano negli occhi. Era uno che credeva alle storie che raccontava, prima ancora di raccontarle; era uno che creava le condizioni perche' qualcosa succedesse e poi se ne faceva trascinare, come se non tutto dipendesse da lui. A volte diceva "Io non cerco, trovo"; e non era neanche una frase inventata da lui, ma era vera. Questo libro e' la storia di quello che e' successo, ricostruita piu' fedelmente che potevo, il che non e' molto. La principale non fedelta', la piu' grave, e' stata sostituire a Fellini e a me due personaggi inventati, e molto diversi da noi. Insieme ai protagonisti veri, anche una parte delle possibili spiegazioni della storia sono quasi scomparse, scivolate sotto la superficie del racconto. Credo che un lettore molto attento o percettivo sia ancora in grado di scovarle, ma ci vuole una certa fatica. D' altra parte questo e' pur sempre un romanzo, con le sue richieste di invenzione, la sua natura ibrida di realta' e fantasia. E gia' cosi', Yucatan e' diventato una specie di fossato tra chi ne ha vissuto la storia vera. Forse il tono incurante che ho prestato a Dave e alla sua voce narrante e' un modo di esorcizzare le paure e le incertezze in cui ci eravamo imbattuti durante il viaggio. Forse invece la mia vera paura era quella di scrivere senza resistenze, scendere al fondo caldo e palpitante di questo lavoro come ho cercato di fare piu' tardi. Questo e' il mio libro meno capito, di tutti quelli che ho scritto. Anche i miei lettori piu' fedeli e partecipi finiscono spesso per confessarmi che dopo averlo letto gli e' rimasto un senso di perplessita'. Mi dicono che non sono riusciti a decifrare il significato di fondo, leggere i simboli sparsi, sciogliere la catena degli avvenimenti. Il fatto e' che la loro perplessita' riflette come in uno specchio la mia: c'e' lo stesso senso di non spiegato, non chiarito fino in fondo. Questa e' la storia di due persone molto diverse abituate a costruire storie, che per una volta nella loro vita si ritrovano dentro una storia scritta da altri. Neanch'io sono riuscito a decifrare tutti i segni lungo il percorso, e in un certo senso non ho neanche voluto provarci. Mi sono limitato a ricostruire gli avvenimenti fino nei loro dettagli, come uno potrebbe riprodurre con cura minuziosa un geroglifico che non e' in grado di leggere, per un possibile uso futuro. E' una storia significante e insignificante, semplice e difficile da capire, come lo sono le storie quasi del tutto vere.

martedì 8 gennaio 2013

sfere meta-Tao



La prima delle metastrutture - strutture che descrivono altre strutture - introdotte da Tyler Volk e Jeff Bloom è la sfera, caratterizzata dal minimo rapporto possibile tra superficie e volume ed intrinsecamente trascendentale, essendo basata sul numero irrazionale ad infinite cifre π.
Meditation Hall, Sri Aurobindo Ashram, Pondicherry, South India.

Interior views.

Background

Spheres and the tendency towards sphericity are common forms in the sciences, as well as in other disciplines. As physical forms they maximize strength and durability, have a reduced surface area to volume ratio, and minimize environmental contact. In more general terms, the fundamental meanings underlying this form involve equanimity, omni-directionality, simplification, and containment. Spheres and sphericity can be actual physical forms as well as invisible and metaphoric senses of form. In contending with the sense of sphericity, the forms can range from near perfect spheres to partial spheres to squared-off and box-like forms. When nested together, spheres can form holarchic layers.

Examples

  • In science: cells, many fruits (e.g., apples, spheres, cherries, tomatoes), planets, stars, eyes, droplets, heart, skulls, eggs & spores, bubbles, biosphere, ecosystem, inflated puffer, jellyfish, sea urchin, etc.
  • In architecture and design: domes, geodesic domes and spheres, atria, light bulbs and fixtures, etc.
  • In art: halos in Renaissance paintings, spherical forms in paintings and sculpture, etc.
  • In social sciences: spheres as communities, spheres as context, spheres as schemata (as in schema theory), etc.
  • In other senses: sphere of influence, sphere of friends, sphere of consciousness, sphere as neighborhood, etc.
schema di un "uovo"

Metapatterns

The Pattern Underground

viaggio al Tao


La parte finale del terzo libro di Castaneda del 1972 esprime forse nel modo metaforico più completo cosa significa vivere e viaggiare nei mondi non-ordinari della stregoneria:
"Ora che Genaro ha quasi fatto l'uovo forse ti racconterà del suo primo incontro con l'alleato", insisté don Juan.
«Forse», rispose don Genaro senza interesse.
Lo supplicai di raccontare.
Don Genaro si alzò in piedi, si stirò le braccia e la schiena e le sue ossa scricchiolarono. Poi si rimise a sedere.
"Ero giovane quando ho affrontato per la prima volta il mio alleato", disse alla fine. "Ricordo che era presto nel pomeriggio. Ero nei campi dall'alba e stavo tornando a casa. A un tratto l'alleato uscì da dietro un cespuglio e mi sbarrò la strada, mi era stato ad aspettare e mi invitava a lottare con lui. Mi preparai a voltargli le spalle per andarmene, ma mi venne in mente che ero abbastanza forte per affrontarlo, però avevo paura; un brivido mi corse per la spina dorsale e il collo mi diventò rigido come un pezzo di legno. A proposito, questo è sempre il segno che sei pronto, voglio dire, quando ti si indurisce il collo ".
Si sbottonò la camicia e mi mostrò la schiena. Irrigidì i muscoli del collo, del dorso e delle braccia. Notai la sua superba muscolatura. Era come se il ricordo dell'incontro avesse risvegliato tutti i muscoli del suo torso.
«In una simile situazione», continuò, «devi sempre chiudere la bocca».
Si volse a don Juan e disse: «Non è così? ».
«Sì», rispose calmo don Juan. "La scossa dello scontro con l'alleato è così forte che ci si potrebbe staccare la lingua con un morso o farsi saltare i denti. Il corpo deve essere diritto e ben saldo e i piedi devono afferrare il terreno”..
Don Genaro si alzò in piedi e mi mostrò la posizione giusta: il corpo leggermente flesso alle ginocchia e le mani penzoloni ai fianchi con le dita appena ripiegate. Sembrava rilassato e tuttavia ben saldo sul terreno. Rimase in quella posizione per un istante, e quando pensai che stesse per mettersi a sedere guizzò improvvisamente in avanti con un salto stupendo, come se avesse avuto delle molle attaccate ai talloni. Il suo movimento fu così improvviso che ricaddi sulla schiena, ma mentre cadevo ebbi la chiara impressione che don Genaro avesse afferrato un uomo, o qualcosa con la forma di un uomo.
Mi ritirai su a sedere. Don Genaro conservava ancora una tremenda tensione in tutto il corpo, poi rilassò bruscamente i muscoli e si rimise seduto al suo posto.
«Carlos ha appena visto il tuo alleato, proprio ora», osservò don Juan in tono indifferente, «ma è ancora debole ed è caduto».
«Davvero?», mi chiese don Genaro con aria ingenua dilatando le narici.
Don Juan lo assicurò che l'avevo visto.
Don Genaro balzò ancora in avanti con una tale forza che io caddi sul fianco. Aveva eseguito il suo salto così rapidamente che non riuscivo davvero a capire come avesse fatto a balzare in piedi a quel modo da seduto per proiettarsi in avanti.
Scoppiarono tutti e due a ridere rumorosamente e quindi don Genaro cambiò la sua risata in un ululato indistinguibile da quello di un coyote.
"Non pensare che per affrontare il tuo alleato dovrai balzare bene come Genaro", mi disse don Juan in tono di avvertimento. «Genaro salta così bene perché ha il suo alleato che lo aiuta. Tutto quello che devi fare è restare ben saldo sul terreno per sostenere l'urto. Devi stare in piedi proprio nella posizione in cui era Genaro prima di saltare, poi devi balzare in avanti e afferrare l’alleato».
«Prima deve baciare il suo medaglione», interloquì don Genaro.
Don Juan, con finta severità, disse che non avevo medaglioni.
"E i suoi taccuini?", insisté don Genaro. «Deve fare qualcosa dei suoi taccuini; li deve posare da qualche parte prima di saltare, altrimenti potrebbe usarli per picchiare l’alleato".
“Accidenti!", esclamò don Juan in tono di sorpresa apparentemente genuino. «Non ci avevo mai pensato. Scommetto che sarebbe la prima volta che un alleato è buttato a terra con un taccuino».
Quando le risate di. don Juan e l'ululato da coyote di don Genaro si placarono eravamo tutti di ottimo umore.
«Che è successo quando avete afferrato il vostro alleato, don Genaro? », chiesi.
«È stata una scossa molto forte», disse don Genaro dopo un momento di esitazione. Sembrava che avesse esitato per dare ordine ai suoi pensieri.
«Non avevo mai immaginato che sarebbe stata una cosa simile», proseguì. « È stato qualcosa, qualcosa, qualcosa... che non riesco a dire. Dopo che l'ho afferrato abbiamo incominciato a girare. L'alleato mi ha fatto roteare, ma io non l'ho lasciato andare. Abbiamo girato per l'aria con una tale velocità e forza che non riuscivo più a vedere niente, tutto era offuscato. Abbiamo continuato a girare ancora, ancora, ancora. A un tratto ho sentito che ero di nuovo coi piedi per terra. Mi sono guardato: l'alleato non mi aveva ucciso, ero tutto di un pezzo, ero me stesso! Allora ho saputo che ero riuscito, finalmente avevo un alleato. Mi sono messo a saltare per la felicità. Che sensazione! Che sensazione era quella!
"Poi ho guardato in giro per sapere dove ero. I dintorni mi erano sconosciuti. Pensai che l'alleato mi avesse trasportato per aria e lasciato cadere molto lontano da dove avevamo incominciato a girare. Mi orientai, pensai che la mia casa dovesse essere a est, perciò mi avviai in quella direzione. Era ancora presto, l'incontro con l'alleato non era stato troppo lungo. Quasi subito trovai un sentiero e vidi un gruppo di uomini e donne venire verso di me. Erano indiani, pensai che fossero indiani mazatec. Mi circondarono e mi chiesero dove andavo. “Torno a casa a Ixtlan”, risposi. “Ti sei perduto?”, chiese uno. “Sì”, risposi, “perché?”. “Perché Ixtlan non è da quella parte, è nella direzione opposta. Ci andiamo anche noi”, disse un altro. “Vieni con noi”, dissero tutti. “Abbiamo del cibo!”
Don Genaro si interruppe e mi guardò come se aspettasse una mia domanda.
«E allora, che è successo?», chiesi. "Siete andato con loro?».
«No, non ci sono andato», rispose. "Perché non erano reali. L'ho saputo nell'istante in cui mi sono venuti incontro. Nella loro voce, nel loro atteggiamento amichevole, c'era qualcosa che li tradiva, specialmente quando mi hanno offerto di andare con loro. Perciò sono fuggito. Mi hanno chiamato e supplicato di tornare. Le loro invocazioni diventavano ossessionanti, ma continuai a fuggire».
"Chi erano?", chiesi.
«Gente", rispose seccamente don Genaro. «Tranne che non erano reali ".
"Erano come apparizioni", spiegò don Juan, "come fantasmi".
«Dopo aver camminato per un pò", riprese don Genaro, «acquistai più fiducia. Sapevo che Ixtlan era nella mia direzione. E quindi vidi due uomini venire verso di me per il sentiero, anche loro sembravano indiani mazatec. Avevano un asino carico di legna da ardere. Mentre mi passarono accanto borbottarono “Buon pomeriggio”.
“Buon pomeriggio”, risposi continuando a camminare. Non mi fecero caso e se ne andarono per la loro strada. Rallentai il passo e mi girai casualmente a guardarli. Si allontanavano senza curarsi di me, sembravano reali. Li rincorsi urlando: 'Aspettate! Aspettate!'.
«Trattennero l'asino e si fermarono ai due lati dell'animale, come per proteggere il carico.
"Mi sono perduto in queste montagne”, dissi loro. “Da che parte è lxtlan”?. Indicarono nella loro direzione. “Sei molto distante”, disse uno di loro. “ È dall'altra parte di queste montagne. Ti ci vorranno quattro o cinque giorni per arrivarci”. Poi si voltarono e ripresero a camminare. Sentii che erano indiani veri e li pregai di lasciarmi andare con loro.
«Camminammo insieme per un po' e quindi uno di loro prese il fagotto del cibo e me ne offrì. Rimasi impietrito. Nel modo in cui mi avevano offerto il cibo c'era qualcosa di terribilmente strano. Il mio corpo si era spaventato, perciò balzai indietro e incominciai a fuggire. I due mi dissero che se non andavo con loro sarei morto sulle montagne e cercarono di esortarmi a seguirli. Anche le loro suppliche erano molto assillanti, ma fuggii con tutte le mie forze.
«Continuai a camminare. Sapevo di essere nella direzione giusta per Ixtlan e che quei fantasmi cercavano di attirarmi fuori della mia strada.
«Ne incontrai otto; dovevano aver saputo che la mia determinazione era incrollabile. Restavano sul fianco della strada e mi guardavano con occhi imploranti. Molti di loro non dicevano una parola; le loro donne, invece, erano più audaci e mi supplicavano. Alcuni mostrarono anche del cibo e altre mercanzie che presumibilmente avrebbero dovuto vendere, come innocui mercanti sul margine della strada. Non mi fermai e non li guardai.
"Nel tardo pomeriggio arrivai a una valle che mi sembrò di riconoscere, aveva qualcosa di familiare. Pensai di esserci già stato, ma se era così ero davvero a sud di Ixtlan. Incominciai a cercare dei segni per orientarmi e correggere la mia direzione quando vidi un ragazzetto indiano che pascolava le capre. Aveva forse sette anni ed era vestito come me alla sua età, anzi mi ricordava me stesso quando pascolavo le due capre di mio padre."
"Lo osservai per un po'; il ragazzetto parlava da solo, proprio come facevo io, poi parlò alle capre. Da quel che sapevo sulle capre capivo che era veramente bravo: era preciso e attento, non viziava le sue capre ma non era nemmeno crudele."
"Decisi di chiamarlo. Quando gli parlai a voce alta balzò in piedi, scappò su un ciglione e mi guardò da dietro alle rocce. Sembrava pronto a fuggire disperatamente. Mi piacque, sembrava spaventato e tuttavia trovava ancora il tempo di radunare le sue capre lontano dalla mia vista."
"Gli parlai a lungo; dissi che mi ero perduto e non sapevo la strada per Ixtlan. Gli chiesi il nome di quella località e rispose che era quella che pensavo. Questo mi fece molto felice, capii che non ero più perduto e meditai sulla forza che aveva dovuto avere il mio alleato per trasportare tutto il mio corpo così lontano in meno di un batter d'occhio.
"
«Ringraziai il ragazzetto e incominciai ad allontanarmi. Il ragazzo uscì dal suo nascondiglio e radunò le capre in un sentiero quasi invisibile. Il sentiero sembrava condurre giù nella valle. Chiamai il ragazzo che non fuggì. Mi avviai verso di lui ma quando gli arrivai molto vicino saltò nei cespugli. Lo elogiai per la sua cautela e incominciai a interrogarlo.
"Dove porta questo sentiero?”, chiesi. “Giù”, rispose. “Dove vivi?”. “Laggiù”.”Ci sono molte case laggiù”?. “No, solo una”. “Dove sono le altre case?”. Il ragazzo indicò l'altro lato della valle con indifferenza, come fanno i ragazzi della sua età. Poi si incamminò giù per il sentiero con le sue capre.
"Aspetta”, gli dissi. “Sono molto stanco e ho fame, portami dai tuoi”.
"Non ho nessuno”, rispose, e le sue, parole mi fecero sobbalzare. Non so perché, ma la sua voce mi fece esitare. Il ragazzetto, notando la mia esitazione, si fermò e mi parlò. 'In casa mia non c'è nessuno”, disse. “Mio zio è andato via e sua moglie è nei campi. C'è molto cibo, moltissimo. Vieni con me”.
"Mi sentii quasi triste, anche il ragazzetto era un fantasma. Il tono della voce e la sua premura l'avevano tradito. I fantasmi erano là intorno per prendermi ma io non, avevo paura. Ero ancora intorpidito dall'incontro con l'alleato. Volevo arrabbiarmi con l'alleato o coi fantasmi, ma non so come non mi riusciva di andare in collera come al solito, perciò rinunciai. Allora volli sentirmi triste, perché il ragazzetto mi era piaciuto, ma non ci riuscii, perciò rinunciai anche a quello.
«Improvvisamente mi resi conto che avevo un alleato e i fantasmi non potevano farmi nulla. Seguii il ragazzetto giù per il sentiero. Altri fantasmi stavano in agguato e cercarono di farmi cadere nei precipizi, ma la mia volontà era più forte di loro. Dovevano averlo sentito, perché smisero di molestarmi. Dopo un po' si limitarono a piazzarsi sul mio sentiero; di quando in quando qualcuno di loro balzava verso di me, ma lo fermavo con la mia volontà. E allora smisero completamente di infastidirmi».
Don Genaro rimase a lungo in silenzio.
Don Juan mi guardò.
"Che è successo poi, don Genaro?», chiesi.
«Ho continuato a camminare", dichiarò.
Sembrava che avesse terminato la sua storia, che non ci fosse più nulla da aggiungere.
Gli chiesi perché il fatto che gli offrissero cibo gli aveva fatto capire che si trattava di fantasmi.
Non rispose. Lo interrogai ulteriormente chiedendo se era costume degli indiani mazatec negare di avere cibo, o interessarsi pesantemente di questioni di cibo.
Disse che l'aveva capito dal tono delle voci, dalla loro premura nell'attirarlo e dal modo in cui i fantasmi parlavano del cibo; e che lo sapeva perché il suo alleato lo aiutava. Affermò che da solo non avrebbe mai notato quella particolarità.

«Quei fantasmi erano alleati, don Genaro?», chiesi.
«No. Erano gente».
«Gente? Ma se avete detto che erano fantasmi".
"Ho detto che non erano più reali. Dopo il mio incontro con l'alleato nulla era più reale».
Rimanemmo a lungo in silenzio.
"Qual è stato il risultato finale di quell'esperienza, don Genaro?", domandai alla fine.
"Risultato finale?»
«Voglio dire, come e quando siete finalmente arrivato a Ixtlan?».
Scoppiarono tutti e due a ridere contemporaneamente.
«Così per te quello sarebbe il risultato finale», osservò don Juan. "Allora diciamo così: nel viaggio di Genaro non c'era nessun risultato finale, non ci sarà mai nessun risultato finale, Genaro è ancora in viaggio per Ixtlan!».
Don Genaro mi lanciò uno sguardo penetrante e girò il capo per guardare in lontananza, verso sud.
«Non arriverò mai a lxtlan», disse.
La sua voce era ferma ma lieve, quasi un mormorio.
"Eppure nei miei pensieri... nei miei pensieri qualche volta sento che mi manca solo un passo per arrivarci. Ma non ci arriverò mai. Nel mio viaggio non trovo nemmeno i segni familiari che sono abituato a riconoscere. Nulla è più lo stesso».
Don Juan e don Genaro si guardarono, nei loro occhi c'era qualcosa di triste.
"Nel mio viaggio a Ixtlan incontro solo fantasmi viaggiatori", disse don Genaro sottovoce.
Guardai don Juan, non avevo capito quello che aveva voluto dire don Genaro.
"Tutti coloro che Genaro incontra nel suo viaggio verso Ixtlan sono soltanto esseri effimeri», spiegò don Juan. «Tu, per esempio, tu sei un fantasma. I tuoi sentimenti e la tua premura sono quelli della gente. Per questo Genaro dice che nel suo viaggio verso Ixtlan incontra solo fantasmi viaggiatori».
Improvvisamente capii che il viaggio di don Genaro era una metafora.
«Allora il vostro viaggio a Ixtlan non è reale», dissi.
«È reale!», interloquì don Genaro.
«I viaggiatori non sono reali»
Indicò don Juan con un cenno del capo e disse enfaticamente: «Lui è il solo che è reale. Il mondo è reale solo quando sono con lui».
Don Juan sorrise.
«Genaro ha raccontato la sua storia a te», disse, "perché ieri tu hai fermato il mondo, e perché pensa anche che hai visto, ma sei un tale sciocco che non lo sai nemmeno tu. Continuo a dirgli che sei strano e che presto o tardi vedrai. In ogni caso, nel tuo prossimo incontro, se per te ci sarà una seconda volta, dovrai lottare con l'alleato e domarlo. Se sopravvivi alla scossa, e ne sono sicuro perché sei forte e vivi come un guerriero, ti ritroverai vivo in un paese sconosciuto. Allora, come è naturale per tutti noi, la prima cosa che vorrai fare sarà prendere la via del ritorno a Los Angeles, ma non c'è via di ritorno a Los Angeles. Quello che hai lasciato là è perduto per sempre. Allora, naturalmente, sarai uno stregone, ma non avrà importanza; in un momento come quello l'importante per tutti noi è il fatto che tutto ciò che amiamo, odiamo o desideriamo è rimasto alle nostre spalle. Tuttavia i sentimenti di un uomo non muoiono né cambiano, e lo stregone prende la via del ritorno sapendo che non arriverà mai, sapendo che nessun potere sulla terra, nemmeno la sua morte, lo porterà al posto, alle cose, alle persone che amava. Questo ti ha detto Genaro».
La spiegazione di don Juan fu come un catalizzatore; l'intero peso della storia di don Genaro mi colpì all'improvviso quando incominciai a collegare la sua storia alla mia vita.
"E le persone che amo?», chiesi a don Juan. "Che accadrebbe di loro? ».
«Saranno tutte lasciate alle tue spalle», rispose.
«Ma non c'è un modo per ritrovarle? Potrei recuperarle e portarle con me?".
«No. Il tuo alleato girerà con te, con te soltanto, in mondi sconosciuti".
"Ma potrei tornare a Los Angeles, non è vero? Potrei prender l'autobus o l'aeroplano e andarci. Los Angeles sarebbe ancora lì, non è vero? ».
«Sicuro», rispose don Juan ridendo. «E anche Manteca e Temecula e Tucson ».
«E Tecate», aggiunse don Genaro con grande serietà.
"E Piedras Negras e Tranquitas», disse don Juan sorridendo.
Don Genaro aggiunse altri nomi e così fece don Juan, e tutti e due si misero a enumerare una serie di nomi di città e cittadine tra i più ridicoli e incredibili.
«Quando girerai con l'alleato cambierai la tua idea del mondo", disse don Juan. «Quell'idea è tutto, e quando cambia, il mondo stesso cambia».
Mi ricordò che una volta gli avevo letto una poesia e volle che gliela recitassi. Me ne accennò qualche parola e subito ricordai di avergli letto alcune poesie di Juan Ramon Jimenez. Quella che intendeva in particolare don Juan si intitolava El Viaie Definitivo (Il viaggio definitivo). La recitai.


... e me ne andrò. Ma gli uccelli rimarranno, cantando:
e il mio giardino rimarrà, col suo albero verde,
col suo pozzo d'acqua.

Molti pomeriggi i cieli saranno azzurri e placidi,
e le campane sul campanile rintoccheranno
come rintoccano questo pomeriggio.

Le persone che mi hanno amato moriranno,
e ogni anno la città si rinnoverà.

Ma il mio spirito vagherà sempre nostalgico
nello stesso recondito angolo del mio giardino fiorito.


«È questo il sentimento di cui parla Genaro», disse don Juan. «Per diventare uno stregone un uomo deve essere appassionato. Un uomo appassionato ha sulla terra cose che gli appartengono e cose che gli sono care, se non altro il sentiero che percorre».
«Nella sua storia Genaro ti ha detto precisamente questo. Genaro ha lasciato la sua passione a Ixtlan: la sua casa, la sua gente, tutte le cose a cui teneva. E ora vaga nei suoi sentimenti; e qualche volta, come ha detto, quasi arriva a Ixtlan. Tutti noi l'abbiamo in comune: per Genaro è Ixtlan, per te sarà Los Angeles, per me ...».
Non volevo che don Juan mi dicesse di se stesso e lui si interruppe come se mi avesse letto nel pensiero.
Don Genaro singhiozzò e parafrasò i primi versi della poesia.
«Sono andato via. E gli uccelli sono rimasti, cantando».
Per un istante sentii un'indescrivibile ondata di agonia e solitudine avvolgerci tutti e tre. Guardai don Genaro e seppi che, essendo un uomo appassionato, doveva aver avuto nel suo cuore tanti legami, tante cose a cui teneva e che aveva abbandonato. Ebbi la chiara sensazione che in quel momento la forza della sua rievocazione stesse per franare e don Genaro fosse lì lì per scoppiare in lacrime.
Distolsi gli occhi in fretta. La passione di don Genaro, la sua suprema solitudine, mi facevano piangere.
Guardai don Juan, mi fissava.
«Si può sopravvivere sul sentiero della conoscenza solo vivendo come un guerriero», disse. «Perché l'arte del guerriero consiste nell'equilibrare il terrore dell'esser uomo con la meraviglia dell'esser uomo»
Li guardai fisso tutti e due, uno alla volta. I loro occhi erano limpidi e calmi. Avevano evocato una marea di nostalgia opprimente, e quando sembrava che fossero sul punto di scoppiare in lacrime appassionate ne avevano trattenuto l'ondata. Per un istante pensai di vedere. Vidi la solitudine dell'uomo come un'onda gigantesca pietrificata di fronte a me, trattenuta dal muro irresistibile di una metafora.
La mia tristezza era così prepotente che mi sentii euforico, li abbracciai.
Don Genaro sorrise e si alzò in piedi. Anche don Juan si alzò e mi posò delicatamente la mano sulla spalla.
«Ti lasciamo qui», disse. «Fai quello che pensi sia giusto. L'alleato ti aspetterà al limite di quella pianura».
Indicò una buia valle in lontananza.

"Ma se non senti che è la tua ora, non andare all'appuntamento», continuò. 
«Non si guadagna nulla forzando le cose. Se vuoi sopravvivere devi essere limpido come il cristallo e mortalmente sicuro di te».
Don Juan si allontanò senza guardarmi, ma don Genaro si voltò un paio di volte e ammiccando e muovendo il capo mi incitò ad andare avanti. Li guardai finché scomparvero in lontananza, poi mi avviai verso la macchina, misi in moto e me ne andai. Sapevo che non era ancora la mia ora.

lunedì 7 gennaio 2013

Tao cosciente complesso

The complexity of perception.
The Complexity of Consciousness

Figure shows the complex view of perception (and, to some extent, of the consciousness behind it). In the center of the drawing are depicted various stimuli from others and from the physical world impinging on the individual. These stimuli produce effects that can be classified as mental, emotional, and bodily. The innermost reaction circle represents clearly conscious experiences. At this moment, as I write, I hear a pneumatic drill being used to break up the pavement outside my window. I mentally speculate about the air pressure used to operate such an interesting tool but note that it is distracting me; I emotionally dislike the disturbance of my writing; the muscles of my face and ears tighten a little, as if that will reduce the impact of the noxious sound on me. While the three-part classification of effects provides a simplification, in reality the mental, emotional, and bodily responses to stimuli interact at both conscious and less than conscious levels. My mind notices the tension around my ear and interprets that as something wrong, which, as a minor emotional threat, aggravates the noxiousness of the sound, etc. Immediately behind fully conscious experiences are easily experienceable phenomena, represented by the second circle. The mental effect of these phenomena relates to the individual's explicit belief system: I believe that noise is undesirable, but I am fascinated by the workings of machines. Their emotional effect relates to the things he readily knows he likes or dislikes: loud noises generally bother me and make me feel intruded upon. Their bodily effect relates to consciously usable skills and movements: I can relax my facial muscles. These phenomena affect the individual at a level that is not in the focus of consciousness, but that can be easily made conscious by paying attention. These two levels are themselves affected and determined by a more implicit level of functioning, implicit in that the individual cannot identify its content simply by wanting to and paying attention. Where did I get the idea that noise is an intrusion? Why am I fascinated by the workings of machines? I do not know. I might be able to find out by prolonged psychological exploration, but the information is not easily available, even though these things affect me. Why do I have an immediate emotional dislike of noise? Is there some unconscious reaction behind it? How have I come to maintain certain muscle sets in my face that are affected by stress in certain ways? The outer circle in Figure represents basic learnings, conditionings, motor patterns, instincts, reflexes, language categories, and the like, which are so implicit the individual can hardly/ recognize their existence. This is the level of the hardware, the biological givens, and the basic enculturation processes. The distance of these things from consciousness makes it extremely difficult for him to discover and compensate for their controlling influences: they are, in many ways, the basis of himself. If the stimulus in the middle of Figure is a cat, this whole complex machine functions, a machine designed by our culture. We don't "just" see the cat! Our ordinary state of consciousness is a very complex construction indeed, yet Figure hardly goes into details at all. So much for the naturalness of our ordinary state of consciousness.