“CONOSCI TE STESSO”
L'antica massima greca “conosci te stesso” può contenere molti livelli di intuizione mistica, ma oltre a questi aspetti la questione ne presenta uno semplicissimo, universale e anzi pragmatico. E' certo che tutta quanta la conoscenza esterna deve in parte derivare da ciò che si chiama conoscenza di sé, "autoconoscenza".
I buddhisti sostengono che il sé è una sorta di favola. Se è così, il nostro compito sarà quello di identificare quale specie di favola sia. Ma per il momento accetterò il 'sé' come concetto euristico, come una scala utile per arrampicarsi ma forse in seguito da gettar via o da abbandonare.
Allungo la mano nel buio ed essa tocca l'interruttore della luce. “L'ho trovato, eccolo qui”, e “Ora io posso premerlo”.
Ma per poter accendere la luce non avevo bisogno di conoscere la posizione dell'interruttore o quella della mia mano. Sarebbe bastato il semplice resoconto sensoriale del contatto tra mano e interruttore. Dicendo “eccolo qui” avrei potuto essere completamente in errore e tuttavia, con la mano sull'interruttore, avrei potuto premerlo.
La domanda è: "dov'è la mia mano?" Questo elemento di autoconoscenza ha una relazione molto particolare e specifica con la questione della ricerca dell'interruttore o del "sapere" dove esso sia.
Se fossi stato ipnotizzato, per esempio, avrei potuto credere di tenere la mano sopra la testa mentre, in realtà, la tenevo tesa orizzontalmente in avanti. In tal caso, avrei situato l'interruttore in alto sopra la mia testa. Avrei addirittura potuto prendere il fatto che ero riuscito ad accendere la luce come una riprova della scoperta che l'interruttore era “sopra la mia testa”.
Noi "proiettiamo" sul mondo esterno le opinioni che abbiamo sul nostro sé e ci può spesso accadere di essere in errore sul sé eppure di muoverci, agire e interagire con i nostri amici con successo ma sulla base di opinioni false.
Che cos'è allora questo 'sè'? Che cosa, nel contesto di questo capitolo, si aggiunge all'informazione se si segue l'antica massima “conosci te stesso”?
Ricominciamo daccapo. Supponete che io 'sappia' di avere la mano sopra la testa e che 'sappia' che l'interruttore è all'altezza delle mie spalle. Supponete che io abbia ragione a proposito dell'interruttore, ma torto a proposito della mano. Nella mia ricerca dell'interruttore non metterò mai la mano dove esso si trova. Sarebbe meglio se io non 'sapessi' dov'è l'interruttore. Forse allora lo troverei con qualche movimento casuale del tipo tentativo ed errore.
Quali sono allora le regole dell'autoconoscenza? In quali circostanze è meglio (sotto il profilo pragmatico) non avere tale conoscenza che avere opinioni errate? In quali circostanze l'autoconoscenza è necessaria sotto il profilo pragmatico? I più sembrano vivere senza alcuna risposta a domande di questo genere. Anzi, sembrano vivere senza neppure porsi simili domande.
Accostiamoci alla questione con meno arroganza epistemologica. Un cane ha autoconoscenza? E' possibile che un cane "privo" di autoconoscenza sia in grado di inseguire un coniglio? Tutto il complesso di ingiunzioni che ci ammoniscono di conoscere noi stessi è forse solo un groviglio di mostruose illusioni edificate per compensare i paradossi della coscienza?
Se ci sbarazziamo dell'idea che il cane è una creatura e il coniglio un'altra e consideriamo la totalità coniglio-cane come un solo sistema, possiamo chiederci: quali ridondanze devono esistere in questo sistema affinch‚ questa parte del sistema possa inseguire quell'altra? E, magari, non possa "non" inseguirla?
La risposta ora ha un aspetto affatto diverso: l'unica informazione (cioè ridondanza) necessaria in questi casi è relazionale. Il coniglio, con la sua corsa, ha forse "detto" al cane di inseguirlo? Nell'esempio dell'interruttore, quando la mano (la 'mia' mano?) ha toccato l'interruttore, si è creata l'informazione necessaria sulla "relazione" tra mano e interruttore; ed è diventato possibile premere l'interruttore senza informazione collaterale su di me, sulla mia mano o sull'interruttore.
Il cane sa come invitarci a giocare a rincorrerlo: abbassa il mento e la gola verso il suolo e si allunga in avanti, tenendo le zampe anteriori premute contro il suolo dai gomiti alle estremità. Gli occhi sono rivolti in alto e si muovono nelle orbite senza che la testa si sposti; le zampe posteriori sono piegate sotto il corpo, pronte a scattare in avanti. Chiunque abbia mai giocato con un cane conosce bene questo atteggiamento. L'esistenza di un segnale siffatto dimostra che il cane è capace di comunicare ad almeno due livelli russelliani, o tipi logici.
Qui, tuttavia, del gioco m'interessano solo quegli aspetti che esemplificano la regola che "due descrizioni sono meglio di una".
Il gioco e la creazione del gioco debbono essere visti come un unico fenomeno e anzi, dal punto di vista soggettivo, è plausibile dire che la sequenza può essere veramente giocata solo finch‚ conserva qualche elemento creativo e inatteso. Se la sequenza è del tutto nota, essa è "rituale", bench‚ forse sempre formativa del carattere. Quando un essere umano A che gioca ha a sua disposizione un numero finito di azioni alternative, è abbastanza semplice vedere un primo livello di scoperta. Si tratta di sequenze evolutive con una selezione naturale non di elementi ma di "strutture di elementi" di azione. A tenterà varie azioni su B e scoprirà che B accetta solo certi contesti. Cioè, A deve o far precedere certe azioni da certe altre oppure collocare alcune delle proprie azioni in certe cornici temporali (sequenze di interazione) che sono preferite da B:
A 'propone' e B 'dispone'.
Un fenomeno a tutta prima miracoloso è l'invenzione del gioco tra membri di specie di mammiferi assai diverse tra loro. Ho osservato questo processo di interazione tra il nostro chow-chow e il nostro gibbone addomesticato, ed era chiarissimo che il cane reagiva in modo normale a una inattesa tiratina della pelliccia. Il gibbone sbucava all'improvviso dalle travi del tetto della veranda e attaccava agilmente; il cane gli correva dietro, il gibbone scappava e tutto il sistema si spostava dal portico alla nostra camera da letto, che invece di travi e travicelli scoperti aveva un soffitto a intonaco. Costretto al pavimento, il gibbone in ritirata si rivoltava contro il cane, che a sua volta si ritirava e correva sulla veranda. Allora il gibbone si arrampicava sul tetto e tutta la sequenza ricominciava daccapo e veniva ripetuta molte volte con evidente divertimento di entrambi i giocatori.
Scoprire o inventare giochi in acqua con un delfino è un'esperienza molto simile. Avevo deciso di non fornire all'anziana femmina "Tursiops" nessuna indicazione su come comportarsi con me, tranne lo 'stimolo' della mia presenza in acqua. Così rimasi seduto a braccia conserte sugli scalini che scendevano nella vasca. Il delfino mi si avvicinò e mi si mise accanto a cinque-dieci centimetri di distanza dal mio fianco. Di quando in quando, a causa del movimento dell'acqua, avveniva tra noi un accidentale contatto fisico. Apparentemente questi contatti non presentavano alcun interesse per l'animale. Dopo forse due minuti, il delfino si allontanò e si mise a nuotare lentamente intorno a me; pochi istanti dopo sentii qualcosa che mi si infilava sotto il braccio destro. Era il muso del delfino, e io mi trovai di fronte al problema di come non dare all'animale "nessuna indicazione" su come comportarsi con me. La tattica da me progettata era impossibile.
Allentai il braccio destro e lasciai che ci infilasse sotto il muso. In pochi secondi avevo sotto il braccio tutto il delfino. Esso si curvò quindi davanti a me fino a mettermisi in grembo. Da questa posizione passammo a nuotare e a giocare insieme per alcuni minuti.
Il giorno dopo eseguii la stessa sequenza, ma quando il delfino mi si allungò di fianco non aspettai per lo stesso periodo di tempo del giorno prima e gli accarezzai il dorso con la mano. Subito il delfino mi corresse: si allontanò di poco e poi si mise a nuotarmi intorno e mi diede un colpetto con il bordo anteriore della pinna caudale, atto che gli sembrò certo gentile. Quindi andò all'estremità più lontana della vasca e se ne stette là.
Anche queste sono sequenze evolutive, ed è importante vedere con chiarezza "che cosa" esattamente viene evoluto. Descrivere il gioco interspecifico di cane e gibbone o di uomo e delfino come un'evoluzione di elementi di comportamento non sarebbe corretto, poichè‚ non viene generato alcun nuovo elemento di comportamento. Anzi, in ciascuna singola creatura non si evolve alcun nuovo contesto di azione. Il cane è sempre cane, il gibbone è sempre gibbone, il delfino delfino e l'uomo uomo. Ciascuno conserva il proprio 'carattere' - la propria organizzazione dell'universo percepito - eppure è chiaro che qualcosa è accaduto. Sono state generate o scoperte certe strutture di interazione, le quali hanno avuto una durata, per quanto breve. In altre parole, vi è stata una selezione naturale di strutture di interazione. Certe strutture sono sopravvissute più a lungo di altre.
Vi è stata un'evoluzione di "accomodamento reciproco". Con un cambiamento minimo nel cane o nel gibbone il sistema cane-gibbone è diventato più semplice, più internamente coerente e integrato.
Esiste dunque una entità più ampia, diciamo A più B, che, nel gioco, compie un processo per il quale ritengo che il nome giusto sia "pratica". Si tratta di un processo di apprendimento in cui il sistema A più B non riceve informazioni nuove dall'esterno, ma solo dall'"interno del sistema". L'interazione mette a disposizione delle parti di B informazioni sulle parti di A e viceversa. C'è stato un cambiamento di confini.
Inseriamo questi dati in una cornice teorica più ampia. Facciamo un po' di "abduzione", cercando altri casi che siano analoghi al gioco nel senso che rientrano nella stessa regola.
Si noti che il termine "gioco" non limita n‚ definisce gli atti che costituiscono il gioco. "Gioco" è applicabile solo a certe ampie premesse dell'interscambio. Nel linguaggio ordinario, “gioco” non è il nome di un atto o di un'azione; è il nome di una "cornice" per l'azione. Possiamo attenderci allora che il gioco non sia soggetto alle regolari norme del rinforzo. Anzi, chiunque abbia tentato di far smettere di giocare dei bambini sa che cosa si prova vedendo che i propri sforzi vengono semplicemente incorporati nella struttura del loro gioco.
Così per trovare altri casi che rientrano nella stessa regola (o fetta di teoria) cerchiamo integrazioni di comportamento che (a) non definiscano le azioni che ne costituiscono il contenuto; e (b) non obbediscano alle regole ordinarie del rinforzo.
Due casi vengono subito alla mente: l''esplorazione' e la 'delinquenza'. Altri casi degni di considerazione sono il 'comportamento di tipo A' (che i medici psicosomatici considerano in parte eziologico dell'ipertensione essenziale), la 'paranoia', la 'schizofrenia' e così via.
Esaminiamo l''esplorazione' per vedere dove essa sia un contesto per qualche sorta di descrizione doppia, o un suo prodotto.
Primo, esplorazione (e con essa delinquenza e gioco e ogni altra parola di questa classe) è una descrizione primaria, verbale o non verbale, del sé: “Io" esploro”. Ma "ciò che" viene esplorato non è semplicemente 'il mio mondo esterno', o 'il mondo esterno come io lo vivo'.
Secondo, l'esplorazione si autoconvalida, quale che sia il suo esito, gradevole o sgradevole per l'esploratore. Se cercate di insegnare a un ratto a non-esplorare facendogli prendere una scossa quando caccia il naso nelle scatole, esso continuerà a esplorare, come abbiamo visto nel capitolo precedente, presumibilmente perchè‚ ha bisogno di sapere quali scatole sono sicure e quali pericolose. In questo senso, l'esplorazione ha sempre buon esito.
Dunque, l'esplorazione non solo si autoconvalida, ma negli esseri umani sembra generare anche assuefazione. Un tempo conoscevo un grande scalatore, Geoffrey Young, che scalò la parete nord del Cervino con una gamba sola (l'altra l'aveva persa nella prima guerra mondiale). E conoscevo un corridore di fondo, Leigh Mallory, le cui ossa sono ora a meno di sessanta metri dalla vetta dell'Everest. Questi scalatori ci suggeriscono alcune indicazioni sull'esplorazione. Geoffrey Young era solito dire che "non dare ascolto" alle lamentele di autocommiserazione e ai dolori del corpo era una delle discipline più importanti dello scalatore - e anzi, io penso, una delle soddisfazioni della scalata. La vittoria sul sé.
Un siffatto cambiamento del 'sè' è comunemente descritto come una “vittoria”, e si usano parole lineali come “disciplina” e “autocontrollo”. Naturalmente, queste sono esempi di puro soprannaturalismo e per giunta probabilmente un po' tossiche. Ciò che accade è molto più simile a un'incorporazione o a un connubio di idee sul mondo con idee sul sé.