M.C. Escher, Magic Mirror, 1946, Lithograph |
Illusione di alternative
In “The Wife of Bath’s Tale” G. Chaucer narra la storia di un cavaliere di Re Artù che “a spron battuto cavalcando un giorno verso casa di ritorno dalla caccia col falcone” s’imbatte per strada in una fanciulla a cui usa violenza. La regina dice al cavaliere che gli concederà la vita se riuscirà a rispondere alla domanda: “Che cosa desiderano di più le donne?”. il cavaliere, che ha come unica alternativa una sentenza di morte, s’impegna di trovare la risposta e di ritornare al castello dopo un anno e un giorno (il tempo che la regina gli ha dato). Come si può immaginare, l’anno passa, arriva l’ultimo giorno, e il cavaliere è sulla strada del ritorno al castello senza aver trovato la risposta. Questa volta s’imbatte in una vecchia che, dopo che viene a conoscenza dei fatti, gli dice di sapere la risposta e di essere pronta a svelargliela se egli giura che “qualunque cosa io poi vi chieda, la farete se potrete farla” . Posto di nuovo di fronte ad una scelta tra due alternative, naturalmente il cavaliere accetta l’alternativa offerta dalla strega che gli rivela il segreto (“Più di tutto è il dominio che desiderano le donne, sopra i loro mariti e nelle cose d’amore”). La risposta soddisfa poi pienamente le dame di corte e la strega chiede al cavaliere di sposarla. Giunge la notte del matrimonio e il cavaliere giace al fianco della strega disperato e incapace di sopraffare la repulsione per la sua bruttezza. Alla fine la strega gli offre ancora due alternative tra cui scegliere: o lui l’accetta orrenda com’è, e lei per tutta la vita sarà una moglie sottomessa ed esemplare, oppure si trasformerà in una fanciulla giovanissima e bellissima, ma non gli sarà mai fedele. A lungo il cavaliere pondera le due alternative e alla fine non sceglie nessuna delle due, ma rifiuta la scelta stessa. A questo punto la strega diventa una fanciulla bellissima che sarà la più fedele e obbediente delle mogli.
La donna esercita su di lui potere finché egli non si sente più costretto a scegliere e ad essere trascinato in una ulteriore situazione difficile; infatti alla fine contesta la stessa necessità di scegliere. Finché questo tipo di donna è capace di “legare doppio” il maschio con l’illusione di alternative che non finiscono mai neppure lei può essere libera e resta presa nell’illusione di alternative che comportano bruttezza e promiscuità come uniche scelte.
J. H. Weakland e D. D. Jackson hanno usato per primi il termine “illusione di alternative” in uno scritto sulle circostanze interpersonali di un caso di schizofrenia. Notarono che, nel tentativo di fare la scelta giusta tra due alternative, i pazienti schizofrenici incontrano un dilemma tipico: non possono –per la natura della situazione di comunicazione- prendere la decisione giusta, perché entrambe le alternative sono parte integrante di un doppio legame e quindi il paziente “è dannato se la prende ed è dannato se non la prende”. Il blocco di ogni via d’uscita dalla situazione di doppio legame, e l’impossibilità che ne deriva di guardarla dall’esterno, sono elementi fondamentali del doppio legame stesso. Le comunicazioni paradossali legano quasi sempre tutti coloro che vi sono coinvolti: la strega è presa quanto il cavaliere, il marito quanto la moglie. Dall’interno non si può provocare nessun cambiamento; può verificarsi un cambiamento soltanto uscendo fuori dal modello.
“Gioco senza fine”
Due persone decidono di fare un gioco che consiste nel sostituire la negazione con l’affermazione, e viceversa, in ogni frase che si comunicano. I giocatori non possono ritornare con facilità al loro primo, “normale”, modulo di comunicazione, una volta che il gioco sia avviato. Per arrestare il gioco è necessario uscir fuori dal gioco e comunicare su di esso. Un messaggio simile dovrebbe essere chiaramente costruito come un metamessaggio, ma qualunque qualificatore si adotti sarebbe esso stesso soggetto alla regola d’inversione del significato, e quindi inutile. Il messaggio: “Smettiamo di giocare” è indicibile perché a.) ha un significato sia al livello oggetto (in quanto parte del gioco), b.) i due significati sono contraddittori e c.) la natura peculiare del gioco non fornisce una procedura tale da mettere in grado i giocatori di decidere su un significato o sull’altro. L’indecidibilità rende impossibile arrestare il gioco una volta avviato. Etichettiamo situazioni simili giochi senza fine.
Anche se un giocatore emettesse il messaggio: “Continuiamo a giocare” e –per la regola dell’inversione- l’altro capisse che significa di smettere, egli si troverebbe di fronte ad un messaggio indecidibile, a condizione che il suo ragionamento su di esso resti perfettamente logico, perché le regole del gioco non tengono nel debito conto i metamessaggi e un messaggio che proponga la fine del gioco è necessariamente un metamessaggio.
Ciò significa che in un sistema simile nessun cambiamento può essere provocato dall’interno.
Per evitare il dilemma ci sono tre possibilità:
1. i giocatori, prevedendo la necessità di comunicare sul gioco una volta che fosse cominciato, avrebbero potuto accordasi di giocarlo in una lingua ma di metacomunicare in un’altra. Per questo gioco sarebbe una procedura di decisione di grande efficacia, ma sarebbe inapplicabile nella comunicazione umana perché non esiste un metalinguaggio che venga usato soltanto per le comunicazioni sulla comunicazione. Infatti, il comportamento e, più precisamente, il linguaggio naturale sono usati per comunicazioni sia al livello-oggetto che a livello di metalinguaggio;
2. i giocatori avrebbero potuto fissare in anticipo di comune accordo un limite di tempo, superato il quale sarebbero tornati al loro modulo di comunicazione normale. Vale la pena di notare che questa situazione, inattuabile nella comunicazione umana reale, implica il ricorso a un fattore esterno –il tempo- che non rientra nel gioco;
3. i giocatori potrebbero trasferire il loro dilemma su una terza persona con la quale entrambi hanno mantenuto il loro modulo di comunicazione normale e farle decidere la chiusura del gioco.
Un’altro esempio può essere la costituzione di un paese immaginario che garantisce il diritto di un dibattito parlamentare illimitato. Si scopre subito che questa norma non è pratica, perché basta che i membri di un partito comincino a fare discorsi interminabili per impedire che si prenda qualunque decisione. E’ chiaro che è necessario un emendamento della costituzione, ma l’adozione dell’emendamento stesso è soggetta allo stesso diritto di dibattito illimitato che si progetta di emendare per cui l’emendamento può essere rinviato a tempo indeterminato. L’organizzazione dello stato di questo paese è di conseguenza paralizzata e incapace di produrre un cambiamento delle proprie norme, perché è presa in un gioco senza fine.
In questo caso non esiste ovviamente un mediatore che potrebbe restare fuori delle regole del gioco che la costituzione prevede. L’unico cambiamento immaginabile che si possa operare è soltanto un cambiamento violento, una rivoluzione che dia a un gruppo il potere sugli altri partiti e imponga una nuova costituzione. Gli equivalenti di un simile cambiamento violento nel settore delle relazioni tra individui presi in un gioco senza fine possono essere la separazione, il suicidio o l’omicidio.
La terza possibilità, quella di un intervento esterno, è il paradigma dell’intervento psicoterapeutico. In altre parole, il terapeuta in quanto outsider è in grado di provocare quello che il sistema stesso non è in grado di produrre: un cambiamento delle proprie regole.
Prescrivere il sintomo
Per sua natura il sintomo è qualcosa di involontario e quindi di autonomo. Ma questo non è che un altro modo per dire che un sintomo è una forma di comportamento spontaneo, così spontaneo, in realtà, che anche lo stesso paziente lo esperisce come qualcosa di incontrollabile. Ed è questa oscillazione tra spontaneità e coercizione che rende paradossale il sintomo, sia nell’esperienza del paziente che negli effetti sugli altri.
Se un terapeuta insegna al paziente a rappresentare il proprio sintomo, egli gli sta insegnando un comportamento spontaneo e con questa ingiunzione paradossale impone al paziente di cambiare comportamento. Il comportamento sintomatico non è più spontaneo; assoggettandosi all’ingiunzione del terapeuta il paziente è uscito fuori dallo schema del suo sintomatico gioco senza fine, che fino a quel momento non aveva metaregole per cambiare le proprie regole.
La tecnica di prescrivere il sintomo (in quanto tecnica di doppio legame per eliminarlo) sembra che contraddica nettamente quei dogmi della psicoterapia di orientamento psicoanalitico che vietano ogni interferenza diretta con i sintomi. Comunque, negli ultimi anni sono state raccolte molte prove a sostegno della tesi che se si elimina solo il sintomo non ci saranno conseguenze disastrose.
Nella vita reale il fenomeno sempre presente del cambiamento assai di rado è accompagnato da “insight”; il più delle volte si cambia senza sapere il perché. Dal punto di vista della comunicazione, è probabile che le forme più tradizionali di psicoterapia siano molto più attente ai sintomi di quanto non appaia in superficie. Il terapeuta, che trascura di proposito le lagnanze del paziente sul suo sintomo, sta segnalando in modo più o meno evidente, che per il momento la presenza del sintomo non è un fattore negativo e che ciò che conta è individuare cosa c’è “dietro” di esso.
Un cambiamento nel paziente è il più delle volte accompagnato dalla comparsa di un nuovo problema o dalla esacerbazione della condizione di un altro membro della famiglia. Dalla letteratura sulla terapia del comportamento si trae l’impressione che il terapeuta (interessato com’è soltanto al suo paziente singolo) non vede tutte le connessioni reciproche tra questi due fenomeni e, se consultato, consideri isolatamente anche i nuovi problemi.
Il termine “prescrivere il sintomo” è stato introdotto per la prima volta nel lavoro del progetto di Bateson “Terapia della famiglia in schizofrenia”. Questo gruppo di lavoro chiarì esplicitamente la natura paradossale, di doppio legame, di tale tecnica.
Doppi legami terapeutici
Prescrivere il sintomo è soltanto uno dei molti e svariati interventi paradossali che si possono classificare con il termine di doppio legame. Le comunicazioni paradossali possono essere fattori terapeutici.
Sul piano strutturale, un doppio legame terapeutico è l’immagine allo specchio di quello patogeno:
presuppone una relazione intensa (nella fattispecie, la situazione psicoterapeutica) da cui il paziente si aspetta una ragione per sopravvivere;
in questo contesto, viene data un’ingiunzione che è strutturata in modo tale da:
- rinforzare il comportamento che il paziente si aspetta che sia cambiato;
- implicare che questo rinforzo sia un veicolo del cambiamento;
- creare il paradosso perché al paziente si dice di cambiare restando com’è.
Il paziente viene messo in una situazione insostenibile, riguardo alla sua patologia. Se egli accondiscende non può più “non farci niente”; egli può farci qualcosa, e questo rende impossibile la situazione di non poterci fare niente (il che è lo scopo della terapia). Se si oppone all’ingiunzione, può farlo soltanto non comportandosi sintomaticamente (che è lo scopo della terapia). In un doppio legame patogeno il paziente è “dannato se può farci qualcosa ed è dannato se non può farci niente”, in un doppio legame terapeutico è “cambiato se può farci qualcosa ed è cambiato se non può farci niente”;
la situazione terapeutica impedisce al paziente di chiudersi in se stesso o altrimenti di dissolvere il paradosso commentandolo. Perciò anche se l’ingiunzione è assurda da un punto di vista logico, è una realtà pragmatica: il paziente non può non reagire ad essa, ma non può neppure reagire ad essa nel suo modo consueto, sintomatico.
Un doppio legame terapeutico costringe sempre il paziente ad uscir fuori dallo schema stabilito dal suo dilemma.
Esempi di doppi legami terapeutici
ESEMPIO 1
Il paziente paranoide, come già accennato, estende la sua ricerca del significato a fenomeni del tutto marginali e non pertinenti, poiché la percezione corretta, e il commento, del problema centrale -il paradosso-, gli sono stati preclusi. La presenza continua dell’ingiunzione che gli preclude la percezione corretta ha un doppio effetto: gli impedisce di colmare queste lacune con una informazione adeguata e rafforza i suoi sospetti. D. D. Jackson lo definisce “un modo d’insegnare al paziente ad essere più sospettoso” .
ESEMPIO 2
Non soltanto quella psicoanalitica ma in genere quasi tutte le situazioni psicoterapeutiche sono ricche di impliciti doppi legami. A rendersi conto della natura paradossale della psicoanalisi fu uno dei primi collaboratori di S. Freud, H. Sachs, a cui si attribuisce la frase: “Un’analisi termina quando il paziente si rende conto che potrebbe continuare per sempre” ; un’asserzione che in modo assai curioso richiama alla mente la credenza Zen secondo cui l’illuminazione giunge quando l’allievo si rende conto che non c’è nessun segreto, nessuna risposta ultima, e quindi nessuna ragione di continuare a far domande.
Alcuni dei paradossi più rilevanti che il contesto comporta sono i seguenti:
al paziente viene detto: “Sii spontaneo”;
in questa situazione, qualunque cosa faccia, il paziente si trova di fronte ad una risposta paradossale. Se fa notare che non sta migliorando, gli si dice che questo è dovuto alla sua resistenza, ma che è un bene perché gli offre un’occasione migliore di capire il proprio problema. Se dichiara che crede di star migliorando, gli si dice che sta resistendo al trattamento cercando di fuggire prima che il suo vero problema sia stato analizzato;
il paziente è in una situazione che non gli consente di comportarsi da adulto, ma quando non si comporta d’adulto l’analista interpreta il suo comportamento infantile come un residuo dell’infanzia e quindi come un comportamento inappropriato;
da una parte, si dice continuamente al paziente che la sua relazione è volontaria e perciò simmetrica. Tuttavia se il paziente arriva in ritardo, non va ad una seduta o viola in qualche modo qualche regola, risulta evidente che la relazione è coercitiva, complementare, con l’analista nella posizione one-up;
la posizione one-up dell’analista diventa particolarmente chiara ogni volta che ci si richiama al concetto di inconscio. Se il paziente respinge un’interpretazione, l’analista può sempre spiegare di stare indicando qualcosa di cui il paziente per definizione non deve aver consapevolezza perché si tratta di qualche processo inconscio. Se d'altra parte il paziente cerca di appellarsi all’inconscio per giustificare qualcosa, l’analista può respingere tale rivendicazione dicendo che se si trattasse di qualche processo inconscio il paziente non potrebbe farvi riferimento.
ESEMPIO 3
I medici dovrebbero guarire. Da un punto di vista interattivo tale premessa li pone in una posizione assai curiosa: occupano la posizione complementare one-up nella relazione dottore-paziente finché il malato non è guarito. D’altra parte, quando falliscono i loro sforzi le posizioni si rovesciano: la natura della relazione dottore-paziente è allora dominata dalla refrattarietà della condizione del paziente e il medico viene a trovarsi nella posizione one-down. E’ allora probabile che venga “legato doppio” da quei pazienti che per ragioni spesso assai recondite non possono accettare di migliorare o da quelli che trovano che essere one-up su ogni partner (medico compreso) sia più importante del dolore o del disagio che una scelta simile può procurare. In entrambi i casi è come se questi pazienti comunicassero tramite i loro sintomi: “Aiutami, ma io non te lo permetterò”.
ESEMPIO 4
L’imposizione di un doppio legame terapeutico può cominciare spesso anche dalla richiesta telefonica di un appuntamento fatta da un nuovo paziente. Se il paziente non avverte nessuna diminuzione del dolore nel periodo di tempo tra la telefonata e il primo appuntamento, non si è fatto alcun danno, e il paziente apprezzerà l’interesse e la prudenza del terapeuta. Ma se si è sentito meglio, si è superato il primo stadio per l’ulteriore strutturazione del doppio legame terapeutico. Come passo successivo si può spiegare che la psicoterapia non allevia il dolore, ma che il paziente stesso di solito può “spostare il dolore nel tempo” e “condensare la sua intensità”. I pazienti di solito riescono a sentirsi peggio seguendo il suggerimento del terapeuta, e subendo questa esperienza non possono fare a meno di rendersi conto di avere un poco controllato il loro dolore. Naturalmente, il terapeuta non suggerisce mai che dovrebbero cercare di sentirsi meglio.
ESEMPIO 5
Una ragazza che studiava in un college correva il pericolo di essere bocciata perché non riusciva ad alzarsi in tempo per seguire le lezioni delle otto. Il terapeuta allora le disse di mettere la sveglia alle sette. Il mattino seguente, quando la sveglia avesse suonato, si sarebbe trovata di fronte a due alternative: poteva alzarsi, fare la prima colazione e trovarsi in classe alle otto, nel qual cosa non si sarebbe dovuto fare più nulla; oppure, poteva restare a letto come al solito. In questo caso, però, non le avrebbe permesso di alzarsi poco prima delle dieci, come di solito faceva, ma avrebbe dovuto rimettere la sveglia alle undici e continuare a restare a letto (riposo forzato), quella mattina e la mattina seguente, finché non avesse suonato. Tre giorni dopo riprese a seguire le lezioni del mattino.
ESEMPIO 6
Nella psicoterapia congiunta di una famiglia, la figlia disse al terapeuta di non voler più collaborare alla terapia in alcun modo. Il terapeuta per controbattere questa presa di posizione, disse che la sua ansia era comprensibile e che lui voleva che continuasse quanto più possibile col suo atteggiamento disfattista. Con questa semplice ingiunzione la mise in una situazione insostenibile: se lei continuava a sabotare il corso della terapia era chiaro che stava cooperando (e lei era decisa a non farlo), ma se voleva disobbedire all’ingiunzione poteva farlo soltanto assumendo un atteggiamento che non fosse disfattista (e questo avrebbe reso possibile continuare la terapia). Naturalmente, avrebbe potuto smettere di andare alle sedute, ma il terapeuta aveva bloccato questa via di scampo insinuando che in tal caso lei sarebbe stata l’unico argomento di discussione della famiglia, una prospettiva che sapeva che la ragazza non poteva assolutamente affrontare.
ESEMPIO 7
Il coniuge che beve mantiene di solito con l’altro partner un modello di comunicazione piuttosto stereotipato. La principale difficoltà è spesso una discrepanza nella punteggiatura della sequenza di eventi. Il marito, ad esempio, può asserire che la moglie lo domina e che lui si sente un po’ più uomo soltanto dopo qualche bicchierino. La moglie controbatte prontamente che rinuncerebbe volentieri a comandare se il marito mostrasse un maggior senso di responsabilità, ma visto che si ubriaca tutte le sere è costretta ad avere cura di lui. Dietro la facciata di scontento, frustrazioni e accuse, si stanno confermando a vicenda mediante un quid pro quo; il marito dà alla moglie la possibilità di essere sobria, ragionevole e protettiva e la moglie rende possibile a suo marito di essere irresponsabile, infantile e in genere un fallito incompreso.
Uno dei possibili doppi legami terapeutici che si potrebbe imporre ad una coppia simile sarebbe quello di presecrivere ai coniugi di bere insieme, a condizione però che la moglie beva sempre un bicchierino più del marito. L’introduzione di questa nuova regola nella loro interazione praticamente distrugge i vecchi modelli. Primo, il bere ora è un compito e non più qualcosa di cui lui “non può fare a meno”. Secondo, tutti e due devono controllare di continuo il numero dei bicchierini bevuti. Terzo, la moglie, che di solito è una bevitrice assai moderata, raggiunge subito un grado di ubriachezza che richiede che sia lui a prendersi cura di lei. Non si tratta soltanto di un rovesciamento totale dei loro ruoli abituali; questa situazione pone il marito in una posizione insostenibile: se riesce a seguire le istruzioni del terapeuta o deve smettere di bere o deve costringere la moglie a bere di più, con il rischio di renderla ancor più vulnerabile, malata, etc...
Quando la moglie non vuol più bere, se lui ha intenzione di violare la regola (che lei debba essere avanti di un bicchierino) continuando a bere da solo, deve affrontare la situazione non certo familiare di restare senza il suo angelo custode e di assumersi sia la responsabilità del suo comportamento che di quello della moglie.
ESEMPIO 8
Uno coppia ricorre allo psichiatra perché ritiene di litigare troppo. Piuttosto che concentrare l’attenzione sull’analisi dei loro conflitti, il terapeuta dà una nuova definizione dei loro litigi, sostenendo che essi si amano e tanto più litigano tanto più si amano perché sono così importanti l’uno per l’altra da non potersi lasciare in pace e perché lottare come lottano presuppone uno stato emozionale che li coinvolge profondamente. Per quanto questa interpretazione possa sembrare ridicola ai coniugi, proprio perché è così ridicola per loro, si metteranno a dimostrare al terapeuta quanto si sbaglia. Ma è una cosa che non si può far meglio che smettendo di litigare.
ESEMPIO 9
Che l’effetto terapeutico della comunicazione paradossale non sia affatto una scoperta recente lo mostra il seguente racconto Zen che contiene tutti gli elementi di un doppio legame terapeutico.
Una giovane moglie si ammalò e sul punto di morte disse al marito che se avesse avuto un’altra donna, il suo fantasma lo avrebbe perseguitato. Ben presto la donna passò a miglior vita. Per tre mesi il marito rispettò l’ultima volontà della moglie, ma poi conobbe un’altra donna, s’innamorò di lei e si scambiarono promessa di matrimonio. Subito dopo il fidanzamento, un fantasma cominciò ad apparire all’uomo ogni notte, illustrando tutto sulla sue esistenza presente e a biasimarlo per non essere restato fedele. All’uomo fu consigliato di sottoporre il suo problema a un maestro Zen che viveva vicino al villaggio. Egli gli disse di dire al fantasma che erano tante le cose che sapeva (il fantasma) su di lui (l’uomo) perché non poteva nascondergli nulla, e che se avrebbe risposto ad una sua domanda avrebbe rotto il fidanzamento e sarebbe restato vedovo. L’uomo chiese al maestro Zen qual’era la domanda ed egli gli rispose dicendo di prendere una manciata di semi di soia e dire poi al fantasma di indovinare il numero senza sbagli. Se non avesse risposto l’uomo avrebbe capito che era solo un’invenzione della sua fantasia e non l’avrebbe mai più importunato. Quando incontrò il fantasma seguì il consiglio del maestro, ma non ci fu più nessun fantasma a rispondere a questa domanda.
Paradosso nel gioco, nell’humour e nella creatività
La fantasia, il gioco, l’humour, l’amore, il simbolismo, l’esperienza religiosa e soprattutto la creatività, sia nelle arti che nelle scienze sembrano essere sostanzialmente paradossali.
“Nella fase in cui l’humour si sviluppa, ci si trova all’improvviso di fronte a un capovolgimento implicito-esplicito quando viene liberata la battuta finale [...] I capovolgimenti improvvisi come quelli che nell’humour caratterizzano il momento della battuta finale sono dirompenti ed estranei al gioco. Ma solo il capovolgimento può avere l’effetto di costringere coloro che partecipano all’esperienza dell’humour a dare una nuova definizione interna della realtà [...] Anzitutto si riceve la comunicazione esplicita della battuta finale; poi, ad un livello più elevato di astrazione, la battuta finale trasmette una metacomunicazione implicita su se stessa e sulla realtà che viene esemplificata dalla barzelletta [...] questo materiale della battuta finale implicito-ora-esplicito diventa un messaggio di metacomunicazione che riguarda il contenuto della barzelletta in generale [...] Il reale è irreale, l’irreale è reale. La battuta finale fa precipitare il paradosso interno specifico del contenuto della barzelletta e stimola una riverberazione del paradosso che lo schema del gioco ha generato” .
In “The Act of Creation” di A. Koestler, si avanza la proposta che l’humour, la scoperta scientifica e la creazione artistica siano il risultato di un processo mentale a cui si dà il nome di “biassociazione”. La biassociazione viene definita come la “percezione di uno stato o di un’idea [...] in due schemi di riferimento coerenti ma, di solito, incompatibili...”.
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