venerdì 11 novembre 2011

patologie del Tao


Per cominciare, vorrei fare con voi un piccolo esperi­mento. Alzi la mano chi crede di vedermi. Vedo molte mani alzate... quindi ne deduco che la pazzia ama stare in compagnia. Naturalmente, voi non vedete ‘realmente’ me: quello che ‘vedete’ è un mucchio di informazioni su di me, che voi sintetizzate in una immagine visiva di me. Voi vi costruite quell’immagine.
Lo proposizione ‘Io vedo te’ o ‘Tu vedi me’ è una proposizione che contiene in sé ciò che chiamo episte­mologia. Contiene in sé ipotesi su come ricaviamo l’in­formazione, su che razza di roba sia l’informazione, e cosl via. Quando voi dite che mi ‘vedete’ e alzate innocente-mente la mano, di fatto vi conformate a certe proposizioni relative alla natura della conoscenza e alla natura dell’uni­verso in cui viviamo e al modo in cui veniamo a cono­scerlo. Mi propongo di dimostrare che molte di queste proposizioni sono in realtà false, anche se tutti noi le condividiamo. Nel caso di siffatte proposizioni epistemo­logiche, l’errore non viene scoperto facilmente e non vie­ne punito molto presto. Voi e io siamo in grado di andare in giro per il mondo, di volare fino alle Hawaii, di pre­sentare memorie sulla psichiatria, di trovare il nostro po­sto a questi tavoli, e in generale di agire ragionevolmente come esseri umani nonostante questo profondo errore. Le premesse errate, in effetti, funzionano.
D’altra parte, le premesse funzionano solo fino a un certo limite, e se uno si porta dietro gravi errori episte­mologici, a qualche stadio o in certe circostanze si accor­gerà che quelle premesse non funzionano più; e a questo punto scoprirà con orrore che è tremendamente difficile liberarsi dall’errore che ci sta appiccicato addosso. È co­me se avessimo toccato del miele. Come il miele, la fal­sificazione si propaga: ogni cosa con cui si cerca di sbrat­tarla diviene appiccicosa, e le mani restano sempre appiccicose.
...
Dopo tutto, zero è diverso da uno, e pertanto zero può essere una causa, il che non è ammissibile nelle scien­ze fisiche. La lettera che non avete scritto può provocare una risposta furiosa, poiché zero può essere metà del bit d’informazione necessario. Anche l’identità può essere una causa, poiché l’identità differisce dalla differenza. 
Queste strane relazioni valgono perché noi organismi (e molte delle macchine che costruiamo) ci troviamo a es­ser capaci d’immagazzinare energia: ci troviamo a posse­dere la struttura circuitale necessaria a che il nostro con­sumo di energia possa essere una funzione decrescente del­l’energia entrante. Se date un calcio a una pietra, essa si muove con l’energia che ha ricevuto dalla vostra pedata; ma se date un calcio a un cane, esso si muove con l’ener­gia che ricava dal suo metabolismo. Un’ameba, per un tempo considerevole, si muove di più quando è affama­ta. Il suo consumo di energia è inversamente proporzio­nale all’energia entrante. 
Questi strani effetti propri della creatura (e che non si presentano nel pleroma) dipendono anche dalla struttura circuitale, e un circuito è un canale chiuso (o una rete di canali) lungo il quale vengono trasmesse differenze (o trasformate di differenze). 
D’un tratto, negli ultimi vent’anni, questi concetti si sono fusi per darci un’ampia visione del mondo in cui vi­viamo - un nuovo modo d’intendere ciò che è una mente. Voglio elencare quelle che a me sembrano le caratteristi­che essenziali minime di un sistema che io accetterei come caratteristiche della mente: 

I. Il sistema agirà su e con differenze. 
2. Il sistema consisterà in anelli chiusi o reti di canali lungo i quali verranno trasmesse le differenze e le loro trasformate. (Ciò che viene trasmesso su un neurone non è un impulso, ma la notizia di una differenza). 
3. Molti degli eventi interni al sistema riceveranno energia dal componente che risponde piuttosto che dal­l’effetto del componente innescante. 
4. Il sistema si dimostrerà autocorrettivo, nella direzio­ne dell’omeostasi o nella direzione dell’instabilità. L’au­tocorrezione implica il procedimento per tentativi ed er­rori. 

Ora queste caratteristiche minime della mente sono ge­nerate ogni qualvolta e ovunque esista l’adeguata strut­tura circuitale di anelli causali. La mente è funzione ne­cessaria, inevitabile, di un’adeguata complessità, ovunque questa complessità si presenti. 
Ma quella complessità si presenta in moltissimi altri posti, oltre che nella mia e nella vostra testa. Torneremo in seguito al problema se un uomo o un calcolatore abbia­no una mente. Per il momento dirò che una foresta di sequoie o un banco corallifero con il loro aggregato di organismi dalle relazioni intrecciate hanno la necessaria struttura circuitale. L’energia necessaria per le risposte di ogni organismo è fornita dal suo metabolismo e il sistema globale agisce in modo autocorrettivo in diverse maniere. Una società umana è simile a tutto ciò e possiede anelli causali chiusi. Ogni organizzazione umana mostra sia ca­ratteristiche autocorrettive sia una potenziale instabilità. 
Consideriamo ora per un momento se un calcolatore pensi. Io direi di no. Ciò che ‘pensa’ e procede per ‘ten­tativi ed errori’ è l’uomo più il calcolatore più l’ambiente. E le linee di demarcazione tra uomo, calcolatore e ambien­te sono del tutto artificiali e fittizie: sono linee che ta­gliano i canali lungo i quali vengono trasmesse le informazioni o le differenze; non sono confini del sistema pen­sante. Quello che pensa è il sistema totale, che procede per tentativi ed errori, ed è costituito dall’uomo più l’am­biente. 
Ma se accettate l’autocorrezione come caratteristica de­cisiva del processo di pensiero o mentale, allora ovvia­mente all’interno dell’uomo c’è ‘pensiero’ a livello neuro­vegetativo per il mantenimento di diverse variabili in­terne. Analogamente il calcolatore, qualora controlli la sua temperatura interna, effettua al suo interno qualche semplice processo di pensiero. 
Ora cominciamo a scorgere alcuni degli errori episte­mologici della civiltà occidentale. In armonia col clima di pensiero che predominava verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, Darwin formulò una teoria della selezione naturale e dell’evoluzione in cui l’unità di sopravvivenza era o la famiglia o la specie o la sottospecie o qualcosa del genere. Ma oggi è pacifico che non è questa l’unità di sopravvivenza nel mondo biologico reale: l’unità di so­pravvivenza è l’organismo più l’ambiente. Stiamo impa­rando sulla nostra pelle che l’organismo che distrugge il suo ambiente distrugge se stesso. 
Se ora modifichiamo l’unità di sopravvivenza darwinia­na fino a includervi l’ambiente e l’interazione fra organi­smo e ambiente, appare una stranissima e sorprendente identità: l’unità di sopravvivenza evolutiva risulta coinci­dere con l’unità mentale. 
Una volta si pensava a una gerarchia di taxa (individuo, famiglia, sottospecie, specie, eccetera) come unità di so­pravvivenza; ora invece si scorge una diversa gerarchia di unità — gene nell’organismo, organismo nell’ambiente, eco-sistema, eccetera. L’ecologia, nel senso più ampio, appare come lo studio dell’interazione e della sopravvivenza delle idee e dei programmi (cioè differenze, complessi di diffe­renze, eccetera) nei circuiti. 
Vediamo ora che cosa succede quando si commette l’er­rore epistemologico di scegliere l’unità sbagliata: si fini­sce col contrapporre una specie a un’altra che la circon­da o all’ambiente in cui vive. Uomo contro natura. In effetti si finisce con l’inquinare la Kaneohe Bay, col ri­durre il lago Erie a una poltiglia verde e col dire: «Costruiamo bombe atomiche più potenti per annientare i nostri vicini di casa». Vi è un’ecologia delle idee cattive, proprio come vi è un’ecologia delle erbacce, ed è una ca­ratteristica del sistema che l’errore di base si propaghi. Come un parassita tenace esso si ramifica nei tessuti vi­tali, e tutto finisce in un caos piuttosto singolare. Quan­do si restringe la propria epistemologia e si agisce sulla base della premessa: « Ciò che interessa me sono io, o la mia organizzazione, o la mia specie », si escludono dalla considerazione altri anelli della struttura: si decide di vo­lersi sbarazzare dei sottoprodotti della vita umana e si decide che il lago Erie sarà un buon posto per scaricar­veli; si dimentica però che il sistema eco-mentale chiamato lago Erie è una parte del nostro più ampio sistema eco-mentale e che se il lago Erie viene spinto alla follia, la sua follia viene incorporata nel più vasto sistema del nostro pensiero e della nostra esperienza. 
Voi e io siamo così profondamente imbevuti, per la nostra formazione culturale, dell’idea dell’ ‘io’, dell’or­ganizzazione e della specie, che è difficile credere che l’uomo possa vedere i suoi rapporti con l’ambiente in un qualunque altro modo che non sia quello che ho biasi­mato con un po di cattiveria negli evoluzionisti dell’Ot­tocento. Devo perciò spendere qualche parola sulla storia di tale questione. 
Dal punto di vista antropologico, ciò che sappiamo sul materiale primitivo sembrerebbe indicare che l’uomo nel­la società traesse spunti dal mondo naturale circostante e li applicasse in un qualche modo metaforico alla società in cui viveva.
Cioè egli si identificava o si immedesimava col mondo naturale circostante e prendeva questa imme­desimazione a guida della propria organizzazione sociale e delle proprie teorie sulla psicologia. Si trattava del cosid­detto ‘totemismo’. 
In un certo senso era tutto assurdo, eppure era più sensato della maggior parte delle cose che facciamo oggi, poiché il mondo naturale intorno a noi possiede in realtà questa struttura generale di sistema, ed è quindi una fonte di metafore adatte a porre l’uomo in grado di capire se stesso all’interno della sua organizzazione sociale. 
Il passo successivo, a quanto sembra, fu quello di inver­tire il procedimento: trarre spunti da se stessi e applicarli al mondo naturale circostante: si trattò dell’ ‘animismo’, che estende la nozione di personalità o mente alle mon­tagne, ai fiumi, alle foreste e così via. Anche questa non era una cattiva idea da molti punti di vista. Ma il passo successivo fu quello di separare la nozione di mente dal mondo naturale, e allora si ebbe la nozione di divinità. 
Ma quando si separa la mente dalla struttura in cui è immanente — come un rapporto umano, la società umana, o l’ecosistema — si commette, io credo, un errore fonda­mentale, di cui a lungo andare sicuramente si soffrirà. 
La lotta può essere un elemento positivo per la nostra anima fino al punto in cui vincere la battaglia è facile. Ma quando si possiede una tecnica tanto sviluppata da poter veramente agire sulla base dei propri errori epi­stemologici e provocare disordine e distruzione nel mondo in cui viviamo, allora l’errore è mortale. L’errore episte­mologico è ammissibile, va bene, ma solo fino al momento in cui ci crea intorno un universo in cui quell’errore divie­ne immanente nei mostruosi cambiamenti del mondo che abbiamo creato e in cui ora cerchiamo di vivere. 
Vedete, non stiamo parlando della vecchia cara Mente Suprema di Aristotele, di san Tommaso d’Aquino, e di tutto il resto nel corso dei secoli; quella Mente Suprema che era infallibile e incorruttibile. Stiamo parlando della mente immanente, la quale è corruttibilissima, come tut­ti voi sapete per esperienza professionale. Questo è pro­prio il motivo per cui voi siete qui. Questi circuiti ed equilibri della natura possono facilmente guastai-si, e cer­tamente si guastano quando certi errori fondamentali del nostro pensiero vengono rinforzati da migliaia di partico­lari culturali. 
Non so quanti oggi credano veramente che esista una mente totale separata dal corpo, separata dalla società e separata dalla natura; ma a quelli tra voi che direbbero che si tratta solo di ‘superstizione’, dirò che sono pronto a scommettere che in pochi minuti posso dimostrare loro che le abitudini e i modi di pensare che si accompagnano a quelle superstizioni esistono ancora nella loro testa e an­cora determinano una larga parte dei loro pensieri. L’idea che voi potete vedermi regge ancora i vostri pensieri e le vostre azioni anche se intellettualmente voi forse sapete che non è così. Allo stesso modo i più di noi sono ancora guidati da epistemologie che sappiamo errate. Vediamo alcune delle implicazioni di ciò che ho detto. 
Guardiamo al modo in cui le nozioni fondamentali sono rinforzate ed espresse in ogni genere di particolari del nostro comportamento. Il fatto stesso che io stia monologando davanti a voi è una norma della nostra sottocul­tura accademica, ma l’idea che io possa insegnare a voi, unilateralmente, è derivata dalla premessa che la mente controlla il corpo. E ogni volta che uno psicoterapeuta scivola in una terapia unilaterale, egli obbedisce alla stes­sa premessa. Di fatto, io, stando in piedi davanti a voi, sto compiendo un atto di prevaricazione, rinforzando nel­la vostra mente un atto di pensiero che in realtà è assur­do. Tutti noi continuamente facciamo questo, perché ciò è insito nei particolari del nostro comportamento.
Notate che io sto in piedi, mentre voi state seduti. 
Lo stesso ragionamento conduce ovviamente alle teorie del controllo e alle teorie del potere. In quell’universo, se non si ottiene ciò che si vuole, si dà la colpa a qualcuno e si erige una prigione o un manicomio, secondo i gusti, e vi si caccia il colpevole, se si è capaci di identificarlo. Se non si è capaci di identificano, si dice: "È il sistema".
Questo è grosso modo il punto a cui sono giunti oggi i nostri giovani, che dànno la colpa al sistema; ma noi sap­piamo che non è ai sistemi che si deve dare la colpa: anch’essi fanno parte dello stesso errore. 
Poi naturalmente c’è il problema delle armi. Se voi cre­dete in quel mondo unilaterale e pensate che anche gli altri ci credano (e probabilmente avete ragione, ci credo­no), allora la cosa da fare, ovviamente, è procurarsi delle armi, colpirli duramente e ‘controllarli’. 
Si dice che il potere corrompe; ma questo, credo, è as­surdo: è l’idea del potere che corrompe. Il potere corrom­pe più rapidamente quelli che credono in esso, e sono proprio costoro quelli che più ardentemente lo desiderano. Ovviamente il nostro sistema democratico tende a elar­gire il potere a coloro che lo bramano, e fornisce ogni occa­sione di evitarlo a coloro che non lo vogliono. Non è una soluzione molto soddisfacente, se il potere corrompe pro­prio quelli che ci credono e lo vogliono. 
Forse il potere unilaterale non esiste: dopo tutto, l’uo­mo ‘al potere’ dipende dall’informazione che continua­mente deve ricevere dall’esterno. Egli reagisce a quell’in­formazione nella stessa misura in cui ‘fa’ accadere le cose. Per Goebbels non è possibile controllare l’opinione pubblica tedesca, poiché per farlo egli deve avere spie o confidenti o sondaggi d’opinione che gli dicano che cosa pensano i tedeschi; egli deve poi decidere che cosa ri­spondere a quest’informazione, e poi di nuovo scoprire come essi reagiscono. È un’interazione e non una situa­zione unidirezionale. 
Ma il mito del potere è, naturalmente, un mito poten­tissimo, e probabilmente la maggior parte delle persone a questo mondo più o meno ci credono. È un mito che, se tutti ci credono, nella stessa misura si auto-convalida. Ma è tuttavia una follia epistemologica e conduce senza scampo a disastri di vario genere. 
Infine c’è il problema dell’urgenza: è ora chiaro a molti che immensi pericoli di catastrofe sono germogliati sugli errori epistemologici occidentali. Essi vanno dagli inset­ticidi all’inquinamento, dalla ricaduta delle scorie radioat­tive alla possibilità di fusione della calotta antartica. So­prattutto, la nostra incredibile volontà di salvare la vita dei singoli individui ha creato la possibilità di una care­stia mondiale nell’immediato futuro. 
Forse abbiamo una possibilità alla pari di superare i prossimi vent’anni senza disastri più gravi della semplice distruzione di una o più nazioni. 
Io credo che questa massiccia congerie di minacce al­l’uomo e ai suoi sistemi ecologici sorga da errori nelle nostre abitudini di pensiero a livelli profondi e in parte inconsci. 
Come terapeuti, chiaramente abbiamo un dovere. 
Primo, di far luce in noi stessi; e poi di cercare ogni segno di luce negli altri, e di aiutarli e rinforzarli in tutto ciò che di saggio vi sia in loro. 
E vi sono oasi di saggezza che ancora sopravvivono nel mondo. Buona parte della filosofia orientale è più saggia di qualunque cosa abbia prodotto l’Occidente, e alcuni degli sforzi confusi dei nostri giovani contengono più saggezza delle convenzioni dell’establishment.

Patologie dell'Epistemologia, 1969

giovedì 10 novembre 2011

Sull Tao Lull



il Te del Tao: XXVII - L'USO DELL'ABILITÀ


XXVII - L'USO DELL'ABILITÀ

Chi ben viaggia non lascia solchi né impronte,
chi ben parla non ha pecche né biasimi,
chi ben conta non adopra bastoncelli né listelle,
chi ben chiude non usa sbarre né paletti
eppure non si può aprire,
chi ben lega non usa corde né vincoli
eppure non si può sciogliere.
Per questo il santo
sempre ben soccorre gli uomini
e perciò non vi sono uomini respinti,
sempre bene soccorre le creature
e perciò non vi sono creature respinte:
ciò si chiama trasfondere l'illuminazione.
Così l'uomo che è buono
è maestro dell'uomo non buono,
l'uomo che non è buono
è profitto all'uomo buono.
Chi non apprezza un tal maestro,
chi non ha caro un tal profitto,
anche se è sapiente cade in grave inganno:
questo si chiama il mistero essenziale.


remember Tao


organizzazione del Tao umano


Definiti i fondamenti e gli assiomi, la Scuola di Palo Alto di Watzlawick ha descritto l'aspetto pragmatico dell'organizzazione dell'interazione umana, ovvero la struttura dei modelli di interazione che avvengono tramite la comunicazione.
Per definire meglio gli autori hanno chiamato messaggio una singola unità di comunicazione ed interazione una serie di messaggi scambiati tra persone. Un sistema di questo tipo, di cui le persone sono gli  elementi e l'interazione tramite la comunicazione è il processo che le lega, è inevitabilmente un sistema complesso, tuttavia per mezzo degli strumenti sviluppati nell'ambito della teoria generale dei sistemi e della Ia e IIa cibernetica è possibile identificare delle strutture nei processi interattivi, definite come modelli di interazione - un'unità di comunicazione di livello più elevato che rappresenta la ripetizione o ridondanza di eventi comunicativi/comportamentali - che spiega il comportamento osservato in due o più individui non-isolati i quali, per il primo assioma, non possono non-comunicare e quindi non-interagire.
  • L'interazione come sistema
L’interazione può essere considerata come un sistema e la teoria generale dei sistemi ci aiuta a capire la natura dei sistemi interattivi. La Teoria Generale dei Sistemi non è soltanto una teoria dei sistemi della biologia, dell’economia e dell’ingegneria. Nonostante che le materie di cui si occupano presentino aspetti assai diversi, queste teorie dei sistemi particolari hanno in comune tante concezioni che hanno reso possibile sviluppare una teoria più generale la quale organizza i punti in comune in isomorfismi formali.
  • Definizione di sistema
Per cominciare possiamo rifarci alla definizione di sistema che hanno dato A. D. Hall e R. E. Fagen nel 1956: "Un insieme di oggetti e di relazioni tra gli oggetti e tra i loro attributi", in cui gli oggetti sono componenti o parti del sistema, gli attributi sono le proprietà degli oggetti, e le relazioni “tengono insieme” il sistema. Mentre gli oggetti possono essere degli individui, gli attributi che servono ad identificarli sono i loro comportamenti di comunicazione. I due studiosi precisano che "le relazioni dobbiamo considerare nel contesto di un dato insieme di oggetti dipendono dal problema in questione poiché vengono incluse le relazioni importanti o interessanti ed escluse quelle banali o irrilevanti. Decidere quali relazioni siano importanti e quali banali spetta alla persona che si occupa del problema, cioè la questione della banalità è relativa all’interesse che si ha per il problema". Qui l’aspetto che è importante non è il contenuto della comunicazione in sé, ma l’aspetto di relazione (“comando”) della comunicazione umana. Sono sistemi interattivi dunque due o più comunicanti impegnati nel processo di definire la natura della loro relazione (o che si trovano a un livello tale per farlo).
  • Ambiente e sottosistemi
Quando si definisce un sistema è importante definire anche il suo ambiente. "L’ambiente di un dato sistema è costituito dall’insieme di tutti gli oggetti che sono tali che un cambiamento nei loro attributi influenza il sistema e anche di quegli oggetti i cui attributi sono cambiati dal comportamento del sistema ... Ogni sistema dato si può ulteriormente suddividere in sottosistemi e gli oggetti che appartengono a un sottosistema si possono benissimo considerare che facciano parte dell’ambiente di un altro sottosistema".
Che il concetto di sistema-ambiente e sistema-sottosistema sia così elusivo e flessibile spiega in gran parte l’efficacia che la teoria dei sistemi ha nello studio dei sistemi viventi (organici), perché "i sistemi organici sono aperti, cioè scambiano materiali, energie o informazione col loro ambiente. Un sistema è chiuso se non c’è alcuna immissione o emissione di energia in nessuna delle sue forme".
Con lo sviluppo della teoria dei sottosistemi aperti gerarchicamente ordinati, non occorre più isolare artificialmente il sistema dal suo ambiente: essi si compenetrano all’interno della stessa struttura teorica.

  • Proprietà dei sistemi aperti
    Totalità
    Ogni parte di un sistema è in rapporto tale con le parti che lo costituiscono che qualunque cambiamento in una parte causa un cambiamento in tutte le parti e in tutto il sistema. Vale a dire, un sistema non si comporta come un semplice composto di elementi indipendenti, ma coerentemente come un tutto inscindibile. Se le variazioni di una parte non influenzano le altre o il tutto, è allora chiaro che le parti non dipendono allora l’una dall’altra e costituiscono invece un “agglomerato” (heap) che non ha una complessità maggiore di quella che risulta dalla somma dei suoi elementi. La sommatività e la totalità si trovano dunque ai due poli di un continuum ipotetico e si può affermare che un qualche grado di totalità caratterizza sempre i sistemi.
    La non-sommatività in quanto corollario della nozione di totalità ci offre una guida negativa per definire un sistema. Un sistema non può essere fatto coincidere con la somma delle sue parti; infatti, l’analisi formale di segmenti isolati artificialmente distruggerebbe l’oggetto stesso dell’interesse. E’ necessario trascurare le parti per la Gestalt e fare attenzione a ciò che ne sostanzia la complessità, che è l’organizzazione. Il concetto psicologico di Gestalt è soltanto un modo per esprimere il principio di non-sommatività; in altri campi si nutre un grande interesse per la “qualità emergente” (emergent quality) che scaturisce dall’interrelazione di due o più elementi. Quando si considera l’interazione come la conseguenza di certe “proprietà” individuali (ruolo, valori, aspettazioni e motivazioni) il composto –due o più individui che interagiscono- è una pura somma, un “agglomerato” che si può spezzare in unità più fondamentali (individuali). Per contro, quel che consegue dal primo assioma della comunicazione –secondo cui ogni comportamento è comunicazione e quindi non si può non-comunicare- è che le sequenze di comunicazione sono reciprocamente inscindibili; in breve, che l’interazione è non-sommativa.
    Un’altra teoria dell’interazione contraddetta dal principio di totalità è quella dei rapporti unilaterali tra elementi, cioè che A può influenzare B ma non viceversa. Asserire che il comportamento di A provoca il comportamento di B vuol dire negare l’effetto del comportamento di B sulla reazione di A; in realtà, è come distorcere la cronologia degli eventi punteggiando certi rapporti a tratto forte e oscurandone altri. Quando la relazione è complementare è facile perdere la totalità dell’interazione e spezzettarla in unità indipendenti e linearmente causali.

    Retroazione
    L’unione delle parti di un sistema non è dovuta quindi né ai rapporti unilaterali, né a quelli sommativi. Dall’avvento della cibernetica e dalla “scoperta” della retroazione, ci si è resi conto che una correlazione circolare e assi complessa è un fenomeno notevolmente diverso ma non meno scientifico delle nozioni causali più semplici e più ortodosse. Retroazione e circolarità sono il modello causale appropriato per la teoria dei sistemi interattivi.

    Equifinalità
    In un sistema circolare e autoregolantesi, i “risultati” non sono determinati tanto dalle condizioni iniziali quanto dalla natura del processo o dai parametri del sistema. Secondo il principio di equifinalità gli stessi risultati possono avere origini diverse perché ciò che è determinante è la natura dell’organizzazione. Secondo von Bertalanffy:
    "Il principio di equifinalità caratterizza lo stato stazionario dei sistemi aperti; ciò, contrariamente a quanto si verifica nei sistemi chiusi dove sono le condizioni iniziali a determinare lo stato di equilibrio, nei sistemi aperti soltanto i parametri del sistema determinato lo stato che è indipendente (anche temporalmente) dalle condizioni iniziali". Se il comportamento equifinale dei sistemi aperti è basato sulla loro indipendenza dalle condizioni iniziali, allora non soltanto condizioni iniziali diverse possono produrre lo stesso risultato finale ma risultati diversi possono essere prodotti dalle stesse “cause”. E’ un corollario che poggia anch’esso sulla premessa che i parametri del sistema prevalgono sulle condizioni iniziali.
    Il comportamento tradizionalmente classificato come “schizofrenico” non venga più reificato ma piuttosto studiato soltanto nel contesto interpersonale in cui si attua –la famiglia, l’istituzione- dove risulta chiaro che questo comportamento non è semplicemente né il risultato né la causa delle condizioni ambientali, di solito strane, ma la parte complessamente integrata di un sistema patologico in corso.
    Infine, una delle caratteristiche più significative dei sistemi aperti è il comportamento equifinale, che contrasta in modo particolare con il modello del sistema chiuso. Lo stato finale del sistema chiuso è completamente determinato dalle circostanze iniziali per cui possiamo sostenere che esse sono la migliore “spiegazione” di quel sistema. Ma, nei sistemi aperti, le caratteristiche organizzative del sistema possono operare in modo da ottenere –ed è il caso limite- anche l’indipendenza totale dalle condizioni iniziali: il sistema è in tal caso la propria migliore spiegazione e lo studio della sua organizzazione attuale la metodologia appropriata.


    • Sistemi interattivi in corso
    I sistemi caratterizzati dalla stabilità sono quelli codiddetti con “stato stazionario”. Secondo A. D. Hall e R. E. Fagen, "un sistema è stabile rispetto a certe sue variabili se tali variabili tendono a restare entro i limiti definiti".

    Relazioni in corso
    E’ quasi inevitabile che un simile livello di analisi concentri l’attenzione sulle relazioni in corso in gruppi-vitali-con-storie, cioè su quelle che sono
    a.) importanti per entrambe le parti
    b.) di lunga durata.
    In una visione globale non si può ignorare il perché dell’energia e dello scopo (pulsione e bisogni, in termini psicologici), ma non si può neppure ignorare la natura dell’operazione, il come.

    Limitazione
    Esistono dei fattori identificabili, intrinseci al processo di comunicazione che servono a legare e a perpetuare una relazione.
    In via sperimentale questi fattori si possono far rientrare nella nozione di effetto limitante della comunicazione, tenendo presente che in una sequenza di comunicazione, ogni scambio di messaggi restringe il numero delle possibili mosse successive. Il contesto può essere più o meno limitante, ma in qualche misura determina sempre le situazioni contingenti. Definire una relazione come simmetrica o complementare oppure imporre una punteggiatura particolare sono atti che in linea di massima limitano la persona che ci sta di fronte. Vale a dire, non è soltanto il trasmettitore ma anche la relazione (che include il ricevitore) a risentire di questo modo di considerare la comunicazione.

    Regole di relazione
    In ogni comunicazione i partecipanti si danno a vicenda delle definizioni della loro relazione, o per dirla con più precisione, ciascuno cerca di determinare la natura della relazione. Analogamente, ciascuno risponde con quella che è la sua definizione della relazione, la quale può confermare, rifiutare o modificare la definizione che ha dato l’altro. E’ un processo che garantisce la massima attenzione, poiché in una relazione in corso non si può certo lasciarlo irrisolto o fluttuante. Se il processo non si stabilizzasse, le grandi variazioni che si verificherebbero e l’impaccio che ne conseguirebbe, per non dire che i partecipanti non sarebbero in grado di definire di nuovo la relazione ad ogni scambio, porterebbero al runaway e alla dissoluzione della relazione. Le famiglie patologiche, sono l’esempio più evidente di questa necessità.
    D. D. Jackson ha dato il nome di regola della relazione allo stabilizzarsi delle definizioni della relazione stessa. Si nota la tendenza a circoscrivere al massimo entro una configurazione ridondante i comportamenti possibili di qualunque particolare dimensione, il che ha spinto ulteriormente lo studioso a caratterizzare le famiglie come sistemi governati da regole. E’ evidente che questo non vuol dire che leggi a priori governano il comportamento della famiglia.


    Famiglia in quanto sistema
    La teoria delle regole di famiglia non è certo in contrasto con la definizione di sistema secondo cui un sistema è stabile rispetto a certe sue variabili se tali variabili tendono a restare entro limiti definiti.
    D. D. Jackson ha proposto un modello simile per l’interazione della famiglia quando ha elaborato il concetto di omeostasi familiare. Osservò che le famiglie di pazienti psichiatrici manifestavano ripercussioni violente (ad esempio depressione, attacchi psicosomatici...) quando il paziente migliorava, per cui postulò che tali comportamenti e forse anche la malattia del paziente erano “meccanismi omeostatici” che operavano per restituire al sistema disturbato il suo precario equilibrio.

    Totalità
    Il comportamento di ogni individuo all’interno della famiglia è in rapporto con il comportamento di tutti gli altri membri. Quando il membro della famiglia identificato come paziente ha un miglioramento o un peggioramento, di solito questi suoi cambiamenti hanno un effetto sugli altri membri della famiglia.

    Non-sommatività
    L’analisi di una famiglia non è la somma delle analisi dei suoi membri individuali. Molte “qualità individuali” dei membri, soprattutto il comportamento sintomatico, sono in realtà proprie del sistema.
    Secondo W. F. Fry i sintomi di un dei partner sembrano proteggere il coniuge e a sostegno di questa tesi fa notare che l’inizio dei sintomi è tipicamente in correlazione con un cambiamento nella situazione di vita del coniuge, un cambiamento che potrebbe essere una fonte di ansia per il coniuge. Il modello interattivo e il problema caratteristico di queste coppie lo studioso lo definisce “controllo duale”.

    Retroazioni e omeostasi
    Il sistema familiare reagisce ai dati in ingresso (azioni dei membri della famiglia o circostanze ambientali) e li modifica. Si deve considerare la natura del sistema e dei suoi meccanismi di retroazione come pure la natura dei dati in ingresso (equifinalità).
    Il termine omeostasi equivale ormai a stabilità o a equilibrio, non soltanto quando lo si applica alla famiglia ma anche in altri campi. Ma esistono due definizioni di omeostasi:
    1. in quanto fine, o stato, specificamente il fatto che esiste una certa costanza di fronte al cambiamento (esterno);
    2. in quanto mezzo: i meccanismi di retroazione negativa che agiscono per minimizzare il cambiamento.
    Attualmente è più chiaro far riferimento allo stato stazionario o alla stabilità di un sistema, che in genere è mantenuta da meccanismi di retroazione negativa.
    A caratterizzare tutte le famiglie che rimangono unite deve esserci qualche grado di retroazione negativa che consente loro di resistere alle tensioni imposte dall’ambiente e dai singoli membri. Le famiglie disturbate sono particolarmente refrattarie al cambiamento e spesso dimostrano una notevole capacità di mantenere lo status quo mediante una retroazione prevalentemente negativa.
    Ma nelle famiglie esiste anche un processo di apprendimento e di crescita, ed è proprio qui che un modello di pura omeostasi compie gli errori maggiori, perché questi effetti sono più vicini alla retroazione positiva. 

    Calibrazione e funzioni a gradino
    L’analogia classica col termostato della caldaia per il riscaldamento illustrerà i termini di “calibrazione” e “funzione a gradino”. Il termostato viene regolato, o calibrato, per una certa temperatura della stanza, le fluttuazioni al di sotto di tale temperatura attiveranno la caldaia finché la deviazione non viene corretta (retroazione negativa) e la temperatura della stanza non è di nuovo entro l’ambito della calibrazione. Si consideri però che cosa accade quando si cambia la messa a punto del termostato – cioè quando viene regolato per una temperatura più alta o più bassa-; è chiaro che il comportamento del sistema nel suo insieme è diverso anche se il meccanismo di retroazione negativa resta esattamente lo stesso. Questo cambiare la calibrazione, così come il cambiare la messa a punto del termostato o le marce di un’automobile sono “funzioni a gradino”.
    Occorre rilevare che una funzione simile ha un effetto stabilizzatore. Inoltre, le funzioni a gradino consentono di ottenere effetti che sono maggiormente adattativi. Per il circuito di retroazione conducente-acceleratore-velocità della macchina esistono precisi limiti per ciascuna marcia, il che rende necessaria una ricalibrazione (cambio di marcia) per accrescere la velocità o per salire una collina. Sembra che anche nelle famiglie le funzioni a gradino abbiano un effetto stabilizzatore: la psicosi è un brusco cambiamento che ricalibra il sistema e può persino essere adattivo. Cambiamenti interni che praticamente sono inevitabili (l’età e la maturazione sia dei genitori che dei figli) possono cambiare la messa a punto di un sistema, sia gradatamente dall’interno sia drasticamente dall’esterno quando l’ambiente sociale incide su questi cambiamenti. E alla fine può portare a una nuova messa a punto del sistema (funzione a gradino). 

    raga Tao




    martedì 8 novembre 2011

    la Coscienza (il Carro) - VII Major


    Il velo dell'illusione, o māyā, che ti ha impedito di percepire la realtà così com'è, inizia a bruciare e a svanire. Il fuoco non è il calore incandescente della passione, ma la fiamma quieta della coscienza. Man mano che essa incenerisce il velo, affiora il volto di un Buddha estremamente delicato e simile a un bimbo. La coscienza che sta crescendo in te in questo momento non è frutto di alcun "fare" consapevole, né devi lottare per far accadere qualcosa. Qualsiasi sensazione che puoi aver avuto in passato di brancolare nel buio si sta dissolvendo, o si dissolverà in breve. Lasciati acquietare, e ricorda che in profondità dentro di te sei solo un testimone, eternamente silente, cosciente e immutabile. Ora si sta aprendo un canale dalla circonferenza di azione e attività verso il centro che testimonia. Ti aiuterà a diventare distaccato; una nuova coscienza solleverà il velo dai tuoi occhi.

    La mente non potrà mai essere intelligente - solo la nonmente è intelligente. Solo la nonmente è originale ed è radicale. Solo la nonmente è rivoluzionaria - rivoluzione in azione. Questa mente ti dà una sorta di intontimento. Appesantito dal peso dei ricordi del passato, gravato dalle proiezioni del futuro, vivi al minimo, non al massimo. La tua fiamma resta estremamente fioca. Allorché inizi a lasciar cadere i pensieri - la polvere che hai raccolto in passato - la fiamma si anima, limpida, chiara, viva e giovane. Tutta la tua vita diventa una fiamma, e una fiamma priva di fumo. Questa è la coscienza.