venerdì 11 novembre 2011

comunicazione patologica del Tao


Definiti i fondamenti, gli assiomi e la struttura dell'interazione, la Scuola di Palo Alto di Watzlawick si è occupata in dettaglio della comunicazione patologica, sia per la sua importanza terapeutica, sia come esempio di analisi di strutture comunicative sia come contro-esempio della comunicazione ben-formata. L'analisi assume che gli assiomi della comunicazione umana implicano come corollari diverse patologie che hanno conseguenza pragmatica lo sviluppo di comportamenti individuali o di gruppo disturbati. Nello svolgere l'analisi gli autori definiscono una serie di strumenti descrittivi che sono alla base del modello sistemico-relazionale.

  • Inesistenza della non-comunicazione
E’ lecito supporre che tentativi di non-comunicare si avranno in ogni contesto in cui si vuole, o si deve, evitare l’impegno inerente a ogni comunicazione. In questo senso una situazione tipica è l’incontro tra due estranei di cui uno vuole conversare mentre l’altro non lo vuole, ad esempio due passeggeri d’aereo seduti di fianco. Mettiamo che il passeggero A sia quello che non vuole parlare. Sono due le cose che non può fare: non può andarsene e non può non comunicare. La pragmatica di questo contesto di comunicazione sono evidentemente ristrette e consistono in:

“Rifiuto” della comunicazione
Con maniere più o meno brusche il passeggero A può far capire al passeggero B che non ha voglia di conversare. Ma per le regole della buona educazione questo è un modo d’agire riprovevole che richiede un certo coraggio e che provocherà un silenzio imbarazzato e piuttosto teso; in questo modo, inoltre, A non è certo riuscito a evitare, come voleva, una relazione con B.

Accettazione della comunicazione
Il passeggero A si rassegna a conversare. L’aspetto importante della decisione del passeggero A è che presto si renderà contro della saggezza di una regola militare secondo la quale “in caso di cattura dare soltanto il nome, il grado e il numero di matricola”; è infatti possibile che il passeggero B non sia affatto disposto a fermarsi a metà strada e voglia scoprire tutto su A, compresi i pensieri, i sentimenti, le convinzioni. E una volta che A ha cominciato a rispondere, troverà sempre più difficile fermarsi, come sa bene chi pratica il lavaggio del cervello.

Squalificazione della comunicazione
La squalificazione è una tecnica importante a cui A può ricorrere per difendersi: egli può comunicare in modo da invalidare le proprie comunicazioni o quelle dell’altro. Rientra in questa tecnica una vasta gamma di fenomeni della comunicazione: contraddirsi, cambiare argomento o sfiorarlo, dire frasi incoerenti o incomplete, ricorrere ad uno stile oscuro o usare manierismi, fraintendere, dare un’interpretazione letterale delle metafore e un’interpretazione metaforica di osservazioni letterali, etc...
Se da tutti i possibili punti di vista da cui si può considerare il comportamento scegliamo quello clinico, ci sia consentito di far rivelare che la comunicazione (comportamento) “folle” non è necessariamente la manifestazione di una mente malata, ma può essere l’unica reazione possibile a un contesto di comunicazione assurdo ed insostenibile.

Sintomo come comunicazione
Il passeggero A può ricorrere per difendersi alla loquacità di B anche facendo finta di aver sonno, di essere sordo o ubriaco, di non conoscere la lingua, o simulando qualsiasi altro stato di incapacità o qualunque difetto che giustifichino l’impossibilità di comunicare. Questa “strategia” diventa perfetta una volta che il soggetto ha convinto se stesso di essere alla mercè di forze che non può controllare, liberandosi così sia dalle fitte della propria coscienza sia dal biasimo delle altre persone che contano in quella situazione.
La teoria della comunicazione giudica un sintomo come un messaggio non verbale del tipo: "non sono io che non voglio (o che voglio) far questo, è qualcosa che non posso controllare, per esempio i nervi, la malattia, l’ansia, un difetto della vista, l'alcool, l'educazione che ho ricevuto, i comunisti, o mia moglie." 
  • Struttura di livello della comunicazione (contenuto e relazione)
Durante una seduta di terapia familiare congiunta una coppia raccontò questo episodio:
il marito, mentre era a casa da solo, aveva ricevuto una telefonata da un amico che doveva venire da quelle parti, e così si offrì di ospitarlo, sapendo che anche la moglie avrebbe fatto lo stesso. Nella seduta terapeutica di questa coppia fu esaminato il problema: sia il marito che la moglie erano d’accordo nell’ammettere che invitare l’amico fosse la cosa più giusta, e naturale da farsi. La loro perplessità sorgeva quando dovevano prendere atto che da un lato erano d’accordo, ma poi “chissà perché” non erano d’accordo su quello che sembrava essere lo stesso punto.
In verità i punti in questione erano due:
1. azione nella situazione (invito);
2. relazione tra i comunicanti (chi doveva prendere l’iniziativa senza consultare l’altro).

Il secondo punto era quello che non era facile risolvere con il modulo numerico perché presupponeva che il marito e la moglie fossero in grado di parlare sulla loro relazione, ovvero di metacomunicare.
Il disaccordo può manifestarsi a livello di contenuto o a livello di relazione; è chiaro però che le due forme dipendono l’una dall’altra.
A dispetto del loro disaccordo, due individui debbono finire la loro relazione che può essere o complementare o simmetrica.

Definizione del sé e dell’altro
La persona P dà la definizione di sé ad O. P può farlo in diversi modi, ma qualunque cosa comunichi e comunque la comunichi a livello di contenuto, il prototipo della sua comunicazione sarà: “Ecco come mi vedo”.
La comunicazione umana consente tre possibili reazioni da parte di O alla definizione che P ha dato di sé; e tutte e tre sono di grande importanza per la pragmatica della comunicazione umana:
Conferma
O può accettare la definizione che P ha dato di sé. Per quanto sorprendente possa sembrare, senza l’effetto che produce la conferma del sé è difficile che la comunicazione avrebbe potuto svilupparsi oltre i confini assai limitati degli scambi indispensabili per la difesa e la sopravvivenza. L’uomo deve comunicare con gli altri per avere la consapevolezza di sé. La verifica sperimentale di questa ipotesi intuitiva ci viene sempre più fornita dalle ricerche sulla privazione sensoriale che mostrano come l’uomo non riesca a mantenere la propria stabilità emotiva per periodi prolungati comunicando solo con se stesso;
Rifiuto
O può rifiutare la definizione che P ha dato di sé. Ma il rifiuto presuppone il riconoscimento, sia pure limitato, di quanto si rifiuta e quindi esso non nega necessariamente la realtà del giudizio di P su di sé;
Disconferma
O può disconfermare la definizione che P ha dato di sé. La disconferma non si occupa della verità o della falsità della definizione che P ha dato di sé, ma piuttosto nega la realtà di P come emittente di tale definizione. Se paragonassimo la conferma e il rifiuto del sé ai concetti di verità e falsità, la disconferma dovrebbe corrispondere al concetto di indecidibilità che è di un ordine logico diverso. W. James scrisse: “Se fosse realizzabile, non ci sarebbe pena più diabolica di quella di concedere ad un individuo la libertà assoluta dei suoi atti in una società in cui nessuno si accorga mai di lui” .

Livelli di percezione interpersonale
Nel discorso a livello di metacomunicazione abbiamo dunque un messaggio di P ad O: “Ecco come ti vedo” che è seguito da un messaggio di O a P: “Ecco come ti vedo”. A questo messaggio P risponderà con un messaggio che asserisce tra l’altro: “Ecco come vedo che mi vedi” e O con il messaggio: “Ecco come vedo che mi vedi che ti vedo”. Questa catena regredente in teoria è infinita, anche se in pratica ci limitiamo ad occuparci di messaggi che non sono di un ordine più elevato di astrazione di quello citato.

Impenetrabilità
La disconferma del sé da parte dell’altro è soprattutto la conseguenza di una particolare mancanza di consapevolezza delle percezioni interpersonali a cui A. R. Lee dà il nome di “impenetrabilità” (imperviousness) e la definisce così: “Dato che la percezione interpersonale si ha a molti livelli, anche l’impenetrabilità può presentarsi a vari livelli; e ad ogni livello di percezione è possibile che corrisponda un analogo livello di non-percezione o impenetrabilità. Ogni volta che viene meno una precisa consapevolezza (cioè quando si ha impenetrabilità), sono sempre pseudo-problemi quelli su cui riferiscono le parti di una diade [...] E’ un’armonia presunta, priva di ogni fondamento reale, quella che le parti raggiungono, come sono presunti e senza alcuna base concreta i disaccordi su cui si accendono le loro dispute” .
A. R. Lee prosegue dimostrando che l’impenetrabilità può aversi al primo livello della gerarchia: al messaggio di P “Ecco come ti vedo” O risponde “Ecco come ti vedo”, in un modo cioè che non concorda con la definizione che P dà di sé. E’ possibile allora che P concluda che O non lo capisce mentre O da parte sua può presumere che P si senta capito da lui. In questo caso O non è in disaccordo con P, ma ignora o fraintende il messaggio di P (situazione di disconferma). Si può dire che si abbia un secondo livello di impenetrabilità quando P non si accorge che il suo messaggio non è giunto ad O; cioè P non trasmette con precisione “Ecco come ti vedo che tu vedi me”. A questo livello, dunque, accade che all’impenetrabilità si reagisca con l’impenetrabilità.
  • Punteggiatura della sequenza
Se non si risolvono le discrepanze relative alla punteggiatura delle sequenze di comunicazione l’interazione a cui inevitabilmente si giunge è un vicolo cieco dove alla fine vengono lanciate accuse reciproche di cattiveria e di follia.
E’ naturale che le discrepanze, relative alla punteggiatura della sequenza di eventi, si presentino in tutti quei casi in cui almeno uno dei comunicanti non ha lo stesso grado di informazione dell’altro tuttavia senza saperlo (Es. Una lettera spedita ma mai arrivata).
Alla radice dei conflitti di punteggiatura è probabile che ci sia la convinzione che esista soltanto una realtà, il mondo come lo vedo io, e che ogni opinione diversa dalla mia dipenda necessariamente dalla irrazionalità dell’altro o dalla sua mancanza di buona volontà. I casi di comunicazione patologica sono circoli viziosi che non si possono infrangere a meno che (e finché) la comunicazione stessa non diventi l’oggetto della comunicazione, ovvero finché i comunicanti non siano in grado di metacomunicare. Ma per esserne capaci devono uscire fuori dal circolo.

Causa ed effetto
Per la pragmatica della comunicazione la differenza tra l’interazione delle nazioni o quella degli individui è minima o nulla una volta che le discrepanze di punteggiatura hanno portato a visioni diverse dalla realtà (in cui va esclusa la natura della relazione) e quindi al conflitto internazionale o interpersonale.

Profezia che si autodetermina
Il concetto di “profezia che si autodetermina” (self-fulfilling prophecy), dal punto di vista dell’interazione è forse il fenomeno più interessante nel settore della punteggiatura. Nella comunicazione, il “dare la cosa per scontata”, si può considerare l’equivalente della “profezia che si autodetermina”.
E’ il comportamento che provoca negli altri una reazione alla quale quel dato comportamento sarebbe la risposta adeguata. Per esempio, una persona che agisce in base alla premessa “non piaccio a nessuno”, si comporterà in modo sospettoso, difensivo o aggressivo, ed è probabile che gli altri reagiscano con antipatia al suo comportamento, confermando la premessa da cui il soggetto era partito.
  • Errori nella “traduzione” del materiale analogico in numerico
Il materiale del messaggio analogico manca di molti elementi che invece ha il linguaggio numerico, tra cui la morfologia e la sintassi. Quando traduce messaggi analogici in numerici, il traduttore deve necessariamente aggiungere e inserire gli elementi mancanti; analogamente, per interpretare i sogni è necessario introdurre la struttura numerica nel caleidoscopio delle immagini oniriche.
Il materiale del messaggio analogico ha molti aspetti contradditori; si presta ad interpretazioni numeriche assai diverse e spesso del tutto incompatibili. Non si tratta soltanto della difficoltà che il trasmettitore incontra per dare una veste verbale alle proprie comunicazioni analogiche, ma se sorge una controversia interpersonale sul significato di un particolare dettaglio della comunicazione analogica, è probabile che uno dei partner introduca il tipo di numerazione che gli consente di mantenere l’opinione che egli ha della natura della relazione.
Anche quando la traduzione sembra adeguata, la comunicazione numerica a livello di relazione può restare curiosamente poco persuasiva:
Bateson sostiene che uno degli errori fondamentali che si compiono quando si traduce da un modulo di comunicazione in un altro sia quello di supporre che un messaggio analogico sia per natura assertivo o denotativo, proprio come lo sono i messaggi numerici.
Tutti i messaggi analogici sono invocazioni di relazione e sono quindi proposte che riguardano le regole future della relazione. L’argomento di G. Bateson è che con il mio comportamento posso accennare o proporre che voglio amare, odiare, combattere, etc..., ma tocca a voi attribuire alle mie proposte il futuro valore di verità positivo o negativo.

Nel tradurre il materiale analogico in numerico, bisogna introdurre funzioni di verità logiche che mancano al modulo analogico. Tale assenza si nota maggiormente quando si deve negare. E’ semplice trasmettere il messaggio analogico “Ti aggredirò”, ma è estremamente difficile segnalare “Non ti aggredirò”, come è difficile se non impossibile introdurre negazioni nei calcolatori analogici.
La disperazione di essere respinto e di non poter dimostrare di non aver l’intenzione di far del male porta alla violenza, anche se l’intenzione è assolutamente benevola (Es. Cercare di accarezzare un gatto che scappa da noi sempre).

Se si osserva come si comportano gli animali in tali circostanze, si giunge alla conclusione che l’unico modo di risolvere il problema (“come segnalare la negazione”) sia anzitutto quello di mostrare e proporre l’azione che si vuol negare e poi di non portarla a termine. Soltanto in apparenza questo comportamento (indubbiamente interessante) è “irrazionale”; si può osservarlo comunque non solo nell’interazione tra animali ma anche a livello umano.

Il rituale può fungere da intermediario tra la comunicazione analogica e quella numerica, in quanto simula il materiale del messaggio ma in modo stilizzato e ripetitivo che è sospeso tra l’analogia e il simbolo. I materiali analogici sono spesso formalizzati nei rituali delle società umane; quando questo materiale viene canonizzato si avvicina molto alla comunicazione simbolica o numerica e curiosamente mostra quasi di coincidere con essa.

Nell’isteria si ha una ritraduzione dal materiale del messaggio già numericizzato nel modulo analogico.
Tutta l’opera di C. G. Jung dimostra che il simbolo si manifesta laddove ciò che chiamiamo “numerizzazione” non è ancora possibile. Ma si ricorre ai simboli anche quando non è più possibile usare il modulo numerico - e questo si verifica tipicamente quando una relazione minaccia di evolversi in zone socialmente e moralmente tabù come l’incesto.

  •  Patologie potenziali dell’interazione simmetrica e complementare
    Nella comunicazione la simmetria e la complementarità non sono in se stesse e da sole “buone” o “cattive”, “normali” o “anormali”, etc... I due concetti si riferiscono semplicemente alle due categorie fondamentali in cui si possono dividere tutti gli scambi di comunicazione.

    Escalation simmetrica
    In una relazione simmetrica è sempre presente il pericolo della competitività. Sia negli individui che nelle nazioni, l’uguaglianza sembra più rassicurante se si riesce ad essere un po’ “più uguali” degli altri. E’ una tendenza a cui si deve la qualità tipica di escalation dell’interazione simmetrica una volta che abbia perduto la stabilità e sia sopraggiunta una cosiddetta runaway (Es. dispute, litigi, guerre...). E’ facile osservare, ad esempio, nei conflitti coniugali l’escalation di un modello di frustrazione che i coniugi perseguono finché alla fine si fermano solo perché spossati fisicamente ed emotivamente; mantengono poi una tregua inquieta finché non si sono successivamente ristabiliti per affrontare lo scontro successivo. La patologia dell’interazione simmetrica è quindi caratterizzata da uno stato di guerra più o meno aperta o scisma.
    In una relazione simmetrica sana i partner sono in grado di accettarsi a vicenda “come sono”, il che li porta alla fiducia e al rispetto reciproci ed equivale ad una conferma dei rispettivi sé davvero realistica. Quando i partner di una relazione simmetrica arrivano alla rottura, di solito si osserva che l’altro rifiuta piuttosto che disconfermare il sé dell’altro.

    Complementarità rigida
    Nelle relazioni complementari ci può essere la stessa conferma reciproca, sana e positiva. Le patologie delle relazioni complementari presentano invece caratteri del tutto diversi e tendenzialmente equivalgono a disconferme piuttosto che a rifiuti del sé dell’altro. Da un punto di vista psicopatologico sono quindi più importanti dei conflitti, più o meno aperti, dei rapporti simmetrici.
    Nella relazione complementare un problema tipico è quello che P pone quando chiede che O confermi la definizione che P dà di sé e che è in contrasto col modo con cui O vede P. questo pone O in un dilemma assai singolare: deve cambiare la propria definizione del sé in una che faccia da complemento e quindi sostenga quella di P, perché è nella natura delle relazioni complementari che una definizione del sé si possa mantenere soltanto se il partner assume uno specifico ruolo complementare. Lo stesso modello di relazione può costituire in un certo periodo una conferma del sé e una disconferma in un periodo successivo (o prematuro) della storia naturale di una relazione. In psicoanalisi si parla di sadomasochismo, che si considera come il legame più o meno fortuito di due individui le cui formazioni del rispettivo carattere deviante si amalgamano a vicenda. In queste relazioni si osserva un crescente senso di frustrazione e di disperazione in uno o in entrambi i partner.

    I modelli di relazione simmetrica e complementare si possono stabilizzare a vicenda e i cambiamenti da un modello all’altro sono importanti meccanismi omeostatici.

    In molte relazioni il problema principale non è il contenuto della comunicazione, ciò che è accaduto, ma l’aspetto di relazione nelle regole del gioco.

    L’importanza del contenuto diminuisce quando emergono i modelli di comunicazione. Nessuna asserzione, presa isolatamente, può essere one-up complementare, simmetrica, o qualsiasi altra cosa. Naturalmente, occorre la “risposta” del partner per “classificare” un dato messaggio. Non è dunque la natura delle asserzioni (considerate come entità individuali) ma il rapporto tra due o più “risposte” a definire quelle che sono le funzioni di comunicazione.

    il banchetto del Tao



    Sire, Maestà
    Riverenti come sempre siam tutti qua
    Sire, Siamo Noi
    Il poeta, L'assassino e Sua santità
    Tutti, Fedeli Amici Tuoi.
    ah... Maestà

    Prego, Amici Miei,
    Lo sapete non so stare senza di voi
    Presto, Sedetevi,
    Al Banchetto attendevamo soltanto voi
    Sempre ogni Giorno che verrà
    Finche amore e pace regnera.

    Tutti Sorridono
    Solo il popolo non ride, ma lo si sa
    Sempre Piagnucola
    Non gli va mai bene niente chissa perchè,
    Chissa perchè perchè ...

    Sperimentare (3 di Bastoni)


    Un'"esperienza" è qualcosa che può essere archiviato in un diario, catturato in un film o incollato in un album. "Sperimentare" è la sensazione stessa di meraviglia, il fremito della comunione, il tocco delicato del nostro essere in connessione con tutto ciò che ci circonda. La donna raffigurata in questa carta non sta solo toccando quest'albero, è in comunione con lui, è pressoché fusa con lui. È un vecchio albero, e ha visto tempi molto duri. Il tocco della donna è delicato, devoto, e il bianco della parte interna del suo cappuccio riflette la purezza del suo cuore. È umile, semplice ed è questo il modo giusto per avvicinarsi alla natura. La natura non suona alcun tamburo a grancassa quando si manifesta in un'esplosione di fiori, né suona un canto funebre quando gli alberi lasciano cadere le foglie in autunno. Ma quando ci avviciniamo a lei con lo spirito giusto, ha molti segreti da condividere. Se ultimamente non hai ascoltato il sussurro della natura, questo è il momento giusto per dargliene l'occasione.

    Guardati semplicemente intorno, guarda negli occhi di un bambino, oppure negli occhi della persona che ami, di tua madre, o di un amico - oppure senti semplicemente un albero. Hai mai abbracciato un albero? Abbraccia un albero, e un giorno scoprirai che non solo tu lo hai abbracciato, anche l'albero ti ha corrisposto, anche l'albero ha abbracciato te. Allora, per la prima volta, saprai che l'albero non è solo la forma, non appartiene solo a una data specie botanica, è un Dio sconosciuto - così verde nel tuo giardino, così ricco di fiori, così vicino a te, ti lancia un richiamo, insistentemente.

    la Biblioteca del Tao


    L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, orlati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d’una biblioteca normale. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l’altro di soddisfare le necessità fecali. Di qui passa la scala spirale, che s’inabissa e s’innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita (se realmente fosse tale, perché questa duplicazione illusoria?); io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l’infinito… La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade. Ve ne sono due per esagono, su una traversa. La luce che emettono è insufficiente, incessante.
    Come tutti gli uomini della Biblioteca, in gioventú io ho viaggiato; ho peregrinato in cerca di un libro, forse del catalogo dei cataloghi; ora che i miei occhi quasi non possono decifrare ciò che scrivo, mi preparo a morire a poche leghe dall’esagono in cui nacqui. Morto, non mancheranno mani pietose che mi gettino fuori della ringhiera; mia sepoltura sarà l’aria insondabile: il mio corpo affonderà lungamente e si corromperà e dissolverà nel vento generato dalla caduta, che è infinita. Io affermo che la Biblioteca è interminabile. Gli idealisti argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragionano che è inconcepibile una sala triangolare o pentagonale. (I mistici pretendono di avere, nell’estasi, la rivelazione d’una camera circolare con un gran libro circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la loro testimonianza è sospetta; le loro parole, oscure. Questo libro ciclico è Dio). Mi basti, per ora, ripetere la sentenza classica: “La Biblioteca è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile”.
    A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero. Vi sono anche delle lettere sulla costola di ciascun libro; non, però, che indichino o prefigurino ciò che diranno le pagine. So che questa incoerenza, un tempo, parve misteriosa. Prima d’accennare alla soluzione (la cui scoperta, a prescindere dalle sue tragiche proiezioni, è forse il fatto capitale della storia) voglio rammentare alcuni assiomi.
    Primo: La Biblioteca esiste ab aeterno. Di questa verità, il cui corollario immediato è l’eternità futura del mondo, nessuna mente ragionevole può dubitare. L’uomo, questo imperfetto bibliotecario, può essere opera del caso o di demiurghi malevoli; l’universo, con la sua elegante dotazione di scaffali, di tomi enigmatici, di infaticabili scale per il viaggiatore e di latrine per il bibliotecario seduto, non può essere che l’opera di un dio. Per avvertire la distanza che c’è tra il divino e l’umano, basta paragonare questi rozzi, tremuli simboli che la mia fallibile mano sgorbia sulla copertina d’un libro, con le lettere organiche dell’interno: puntuali, delicate, nerissime, inimitabilmente simmetriche.
    Secondo: Il numero dei simboli ortografici è di venticinque (1). Questa constatazione permise, or sono tre secoli, di formulare una teoria generale della Biblioteca e di risolvere soddisfacentemente il problema che nessuna congettura aveva permesso di decifrare: la natura informe e caotica di quasi tutti i libri. Uno di questi, che mio padre vide nell’esagono del circuito quindici novantaquattro, constava delle lettere M C V, perversamente ripetute dalla prima all’ultima riga. Un altro (molto consultato in questa zona) è un mero labirinto di lettere, ma l’ultima pagina dice Oh tempo le tue piramidi. È ormai risaputo: per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze. (So d’una regione barbarica i cui bibliotecari ripudiano la superstiziosa e vana abitudine di cercare un senso nei libri, e la paragonano a quella di cercare un senso nei sogni o nelle linee caotiche della mano… Ammettono che gli inventori della scrittura imitarono i venticinque simboli naturali, ma sostengono che questa applicazione è casuale, e che i libri non significano nulla di per sé. Questa affermazione, lo vedremo, non è del tutto erronea).
    Per molto tempo si credette che questi libri impenetrabili corrispondessero a lingue preferite o remote. Ora, è vero che gli uomini piú antichi, i primi bibliotecari, parlavano una lingua molto diversa da quella che noi parliamo oggi; è vero che poche miglia a destra la lingua è già dialettale, e novanta piani piú sopra è incomprensibile. Tutto questo, lo ripeto, è vero, ma quattrocentodieci pagine di inalterabili M C V non possono corrispondere ad alcun idioma, per dialettale o rudimentale che sia. Alcuni insinuarono che ogni lettera poteva influire sulla seguente, e che il valore di M C V nella terza riga della pagina 71 non era lo stesso di quello che la medesima serie poteva avere in altra riga di altra pagina; ma questa vaga tesi non prosperò. Altri pensarono a una crittografia; quest’ipotesi è stata universalmente accettata, ma non nel senso in cui la formularono i suoi inventori.


     Cinquecento anni fa, il capo d’un esagono superiore (2) trovò un libro tanto confuso come gli altri, ma in cui v’erano quasi due pagine di scrittura omogenea, verosimilmente leggibile. Mostrò la sua scoperta a un decifratore ambulante, e questi gli disse che erano scritte in portoghese; altri gli assicurò che erano scritte in yiddish. Poté infine stabilirsi, dopo ricerche che durarono quasi un secolo, che si trattava d’un dialetto samoiedo-lituano del guaraní, con inflessioni di arabo classico. Si decifrò anche il contenuto: nozioni di analisi combinatoria, illustrate con esempi di permutazioni a ripetizione illimitata. Questi esempi permisero a un bibliotecario di genio di scoprire la legge fondamentale della Biblioteca.
    Questo pensatore osservò che tutti i libri, per diversi che fossero, constavano di elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Stabili, inoltre, un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato: non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identici. Da queste premesse incontrovertibili dedusse che la Biblioteca è totale, e che i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch’è dato di esprimere, in tutte le lingue. Tutto: la storia minuziosa dell’avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di questi cataloghi, la dimostrazione del catalogo falso, l’evangelo gnostico di Basilide, il commento di questo evangelo, il commento del commento di questo evangelo, il resoconto veridico della tua morte, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpolazioni di ogni libro in tutti i libri.
    Quando si proclamò che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima impressione fu di straordinaria felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto. Non v’era problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non esistesse: in un qualche esagono. L’universo era giustificato, l’universo attingeva bruscamente le dimensioni illimitate della speranza. A quel tempo si parlò molto delle Vendicazioni: libri di apologia e di profezia che giustificavano per sempre gli atti di ciascun uomo dell’universo e serbavano arcani prodigiosi per il suo futuro. Migliaia di ambiziosi abbandonarono il dolce esagono natale e si lanciarono su per le scale, spinti dal vano proposito di trovare la propria Vendicazione.
    Questi pellegrini s’accapigliavano negli stretti corridoi, profferivano oscure minacce, si strangolavano per le scale divine, scagliavano i libri ingannevoli nei pozzi senza fondo, vi morivano essi stessi, precipitativi dagli uomini di regioni remote. Molti impazzirono. Le Vendicazioni esistono (io ne ho viste due, che si riferiscono a persone da venire, e forse non immaginarie), ma quei ricercatori dimenticavano che la possibilità che un uomo trovi la sua, o qualche perfida variante della sua, è sostanzialmente zero.
    Anche si sperò, a quel tempo, nella spiegazione dei misteri fondamentali dell’umanità: l’origine della Biblioteca e del tempo. È verosimile che di questi gravi misteri possa darsi una spiegazione in parole: se il linguaggio dei filosofi non basta, la multiforme Biblioteca avrà prodotto essa stessa l’inaudito idioma necessario, e i vocabolari e la grammatica di questa lingua. Già da quattro secoli gli uomini affaticano gli esagoni… Vi sono cercatori ufficiali, inquisitori. Li ho visti nell’esercizio della loro funzione: arrivano sempre scoraggiati; parlano di scale senza un gradino, dove per poco non s’ammazzarono; parlano di scale e di gallerie con il bibliotecario; ogni tanto, prendono il libro piú vicino e lo sfogliano, in cerca di parole infami. Nessuno, visibilmente, s’aspetta di trovare nulla.
    Alla speranza smodata, com’è naturale, successe un’eccessiva depressione. La certezza che un qualche scaffale d’un qualche esagono celava libri preziosi, che questi libri preziosi erano inaccessibili, parve quasi intollerabile. Una setta blasfema suggerí che s’interrompessero le ricerche e che tutti gli uomini si dessero a mescolare lettere e simboli, fino a costruire, per un improbabile dono del caso, questi libri canonici. Le autorità si videro obbligate a promulgare ordinanze severe. La setta sparí, ma nella mia fanciullezza ho visto vecchi uomini che lungamente s’occultavano nelle latrine, con dischetti di metallo in un bossolo proibito, e debolmente rimediavano al divino disordine.
    Altri, per contro, credettero che l’importante fosse di sbarazzarsi delle opere inutili. Invadevano gli esagoni, esibivano credenziali non sempre false, sfogliavano stizzosamente un volume e condannavano scaffali interi: al loro furore igienico, ascetico, si deve l’insensata distruzione di milioni di libri. Il loro nome è esecrato, ma chi si dispera per i “tesori” che la frenesia di coloro distrusse, trascura due fatti evidenti. Primo: la Biblioteca è cosí enorme che ogni riduzione d’origine umana risulta infinitesima. Secondo: ogni esemplare è unico, insostituibile, ma (poiché la Biblioteca è totale) restano sempre varie centinaia di migliaia di facsimili imperfetti, cioè di opere che non differiscono che per una lettera o per una virgola. Contrariamente all’opinione generale, credo dunque che le conseguenze delle depredazioni commesse dai Purificatori siano state esagerate a causa dell’orrore che quei fanatici ispirarono. Li sospingeva l’idea delirante di conquistare i libri dell’Esagono Cremisi: libri di formato minore dei normali, onnipotenti, illustrati e magici.
    Sappiamo anche di un’altra superstizione di quel tempo: quella dell’Uomo del Libro. In un certo scaffale d’un certo esagono (ragionarono gli uomini) deve esistere un libro che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un bibliotecario l’ha letto, ed è simile a un dio. Nel linguaggio di questa zona si conservano alcune tracce del culto di quel funzionario remoto. Molti peregrinarono in cerca di Lui, si spinsero invano nelle piú lontane gallerie. Come localizzare il venerando esagono segreto che l’ospitava? Qualcuno propose un metodo regressivo: per localizzare il libro A, consultare previamente il libro B; per localizzare il libro B, consultare previamente il libro C; e cosí all’infinito… In avventure come queste ho prodigato e consumato i miei anni.
    Non mi sembra inverosimile che in un certo scaffale dell’universo esista un libro totale (3); prego gli dèi ignoti che un uomo – uno solo, e sia pure da migliaia d’anni! – l’abbia trovato e l’abbia letto. Se l’onore e la sapienza e la felicità non sono per me, che siano per altri. Che il cielo esista, anche se il mio posto è all’inferno. Ch’io sia oltraggiato e annientato, ma che per un istante, in un essere, la Tua enorme Biblioteca si giustifichi.
    Affermano gli empî che il nonsenso è normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l’umile e semplice coerenza) vi è una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della “Biblioteca febbrile, i cui casuali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio”. Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realtà, la Biblioteca include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto. Inutile osservarmi che il miglior volume dei molti esagoni che amministro s’intitola Tuono pettinato, un altro Il crampo di gesso e un altro Axaxaxas mlö. Queste proposizioni, a prima vista incoerenti, sono indubbiamente suscettibili d’una giustificazione crittografica o allegorica; questa giustificazione è verbale, e però, ex hypothesi, già figura nella Biblioteca. Non posso immaginare alcuna combinazione di caratteri
    dhcmrlchtdj
    che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato. Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in uno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio. Parlare è incorrere in tautologie. Questa epistola inutile e verbosa già esiste in uno dei trenta volumi dei cinque scaffali di uno degli innumerabili esagoni – e cosí pure la sua confutazione. (Un numero n di lingue possibili usa lo stesso vocabolario; in alcune, il simbolo biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali, ma biblioteca sta qui per pane, o per piramide, o per qualsiasi altra cosa, e per altre cose stanno le sette parole che la definiscono. Tu, che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?)
    Lo scrivere metodico mi distrae dalla presente condizione degli uomini, cui la certezza di ciò, che tutto sta scritto, annienta o istupidisce. So di distretti in cui i giovani si prosternano dinanzi ai libri e ne baciano con barbarie le pagine, ma non sanno decifrare una sola lettera. Le epidemie, le discordie eretiche, le peregrinazioni che inevitabilmente degenerano in banditismo, hanno decimato la popolazione. Credo di aver già accennato ai suicidi, ogni anno piú frequenti. M’inganneranno, forse, la vecchiezza e il timore, ma sospetto che la specie umana – l’unica – stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta.
    Aggiungo: infinita. Non introduco quest’aggettivo per un’abitudine retorica; dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito. Chi lo giudica limitato, suppone che in qualche luogo remoto i corridoi e le scale e gli esagoni possano inconcepibilmente cessare; ciò che è assurdo. Chi lo immagina senza limiti, dimentica che è limitato il numero possibile dei libri. Io m’arrischio a insinuare questa soluzione: La Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine (4).

    1941, Mar della Plata
    Jorge Luis Borges 

    1) II manoscritto originale non contiene cifre né maiuscole. La punteggiatura è limitata alla virgola e al punto. Questi due segni, lo spazio, e le ventidue lettere d’alfabeto, sono i venticinque simboli sufficienti che enumera lo sconosciuto [N.d.E.].
    2) Prima, per ogni tre esagoni c’era un uomo. Il suicidio e le malattie polmonari hanno distrutto questa proporzione. Fatto indicibilmente malinconico: a volte ho viaggiato molte notti per corridoi e scale levigate senza trovare un solo bibliotecario.
    3) Ripeto: perché un libro esista, basta che sia possibile. Solo l’impossibile è escluso. Per esempio: nessun libro è anche una scala, sebbene esistano sicuramente dei libri che discutono, che negano, che dimostrano questa possibilità, e altri la cui struttura corrisponde a quella d’una scala.
    4) Letizia Alvarez de Toledo ha osservato che la vasta Biblioteca è inutile; a rigore, basterebbe un solo volume, di formato comune, stampato in corpo nove o in corpo dieci, e composto d’un numero infinito di fogli infinitamente sottili. (Cavalieri, al principio del secolo xvii, affermò che ogni corpo solido è la sovrapposizione d’un numero infinito di piani). Il maneggio di questo serico vademecum non sarebbe comodo: ogni foglio apparente si sdoppierebbe in altri simili; l’inconcepibile foglio centrale non avrebbe rovescio.


















    Cimetière des Rois, Plainpalais Cemetery, Geneva, CH
    "... and ne forhtedon na" (Giammai con timore)

    patologie del Tao


    Per cominciare, vorrei fare con voi un piccolo esperi­mento. Alzi la mano chi crede di vedermi. Vedo molte mani alzate... quindi ne deduco che la pazzia ama stare in compagnia. Naturalmente, voi non vedete ‘realmente’ me: quello che ‘vedete’ è un mucchio di informazioni su di me, che voi sintetizzate in una immagine visiva di me. Voi vi costruite quell’immagine.
    Lo proposizione ‘Io vedo te’ o ‘Tu vedi me’ è una proposizione che contiene in sé ciò che chiamo episte­mologia. Contiene in sé ipotesi su come ricaviamo l’in­formazione, su che razza di roba sia l’informazione, e cosl via. Quando voi dite che mi ‘vedete’ e alzate innocente-mente la mano, di fatto vi conformate a certe proposizioni relative alla natura della conoscenza e alla natura dell’uni­verso in cui viviamo e al modo in cui veniamo a cono­scerlo. Mi propongo di dimostrare che molte di queste proposizioni sono in realtà false, anche se tutti noi le condividiamo. Nel caso di siffatte proposizioni epistemo­logiche, l’errore non viene scoperto facilmente e non vie­ne punito molto presto. Voi e io siamo in grado di andare in giro per il mondo, di volare fino alle Hawaii, di pre­sentare memorie sulla psichiatria, di trovare il nostro po­sto a questi tavoli, e in generale di agire ragionevolmente come esseri umani nonostante questo profondo errore. Le premesse errate, in effetti, funzionano.
    D’altra parte, le premesse funzionano solo fino a un certo limite, e se uno si porta dietro gravi errori episte­mologici, a qualche stadio o in certe circostanze si accor­gerà che quelle premesse non funzionano più; e a questo punto scoprirà con orrore che è tremendamente difficile liberarsi dall’errore che ci sta appiccicato addosso. È co­me se avessimo toccato del miele. Come il miele, la fal­sificazione si propaga: ogni cosa con cui si cerca di sbrat­tarla diviene appiccicosa, e le mani restano sempre appiccicose.
    ...
    Dopo tutto, zero è diverso da uno, e pertanto zero può essere una causa, il che non è ammissibile nelle scien­ze fisiche. La lettera che non avete scritto può provocare una risposta furiosa, poiché zero può essere metà del bit d’informazione necessario. Anche l’identità può essere una causa, poiché l’identità differisce dalla differenza. 
    Queste strane relazioni valgono perché noi organismi (e molte delle macchine che costruiamo) ci troviamo a es­ser capaci d’immagazzinare energia: ci troviamo a posse­dere la struttura circuitale necessaria a che il nostro con­sumo di energia possa essere una funzione decrescente del­l’energia entrante. Se date un calcio a una pietra, essa si muove con l’energia che ha ricevuto dalla vostra pedata; ma se date un calcio a un cane, esso si muove con l’ener­gia che ricava dal suo metabolismo. Un’ameba, per un tempo considerevole, si muove di più quando è affama­ta. Il suo consumo di energia è inversamente proporzio­nale all’energia entrante. 
    Questi strani effetti propri della creatura (e che non si presentano nel pleroma) dipendono anche dalla struttura circuitale, e un circuito è un canale chiuso (o una rete di canali) lungo il quale vengono trasmesse differenze (o trasformate di differenze). 
    D’un tratto, negli ultimi vent’anni, questi concetti si sono fusi per darci un’ampia visione del mondo in cui vi­viamo - un nuovo modo d’intendere ciò che è una mente. Voglio elencare quelle che a me sembrano le caratteristi­che essenziali minime di un sistema che io accetterei come caratteristiche della mente: 

    I. Il sistema agirà su e con differenze. 
    2. Il sistema consisterà in anelli chiusi o reti di canali lungo i quali verranno trasmesse le differenze e le loro trasformate. (Ciò che viene trasmesso su un neurone non è un impulso, ma la notizia di una differenza). 
    3. Molti degli eventi interni al sistema riceveranno energia dal componente che risponde piuttosto che dal­l’effetto del componente innescante. 
    4. Il sistema si dimostrerà autocorrettivo, nella direzio­ne dell’omeostasi o nella direzione dell’instabilità. L’au­tocorrezione implica il procedimento per tentativi ed er­rori. 

    Ora queste caratteristiche minime della mente sono ge­nerate ogni qualvolta e ovunque esista l’adeguata strut­tura circuitale di anelli causali. La mente è funzione ne­cessaria, inevitabile, di un’adeguata complessità, ovunque questa complessità si presenti. 
    Ma quella complessità si presenta in moltissimi altri posti, oltre che nella mia e nella vostra testa. Torneremo in seguito al problema se un uomo o un calcolatore abbia­no una mente. Per il momento dirò che una foresta di sequoie o un banco corallifero con il loro aggregato di organismi dalle relazioni intrecciate hanno la necessaria struttura circuitale. L’energia necessaria per le risposte di ogni organismo è fornita dal suo metabolismo e il sistema globale agisce in modo autocorrettivo in diverse maniere. Una società umana è simile a tutto ciò e possiede anelli causali chiusi. Ogni organizzazione umana mostra sia ca­ratteristiche autocorrettive sia una potenziale instabilità. 
    Consideriamo ora per un momento se un calcolatore pensi. Io direi di no. Ciò che ‘pensa’ e procede per ‘ten­tativi ed errori’ è l’uomo più il calcolatore più l’ambiente. E le linee di demarcazione tra uomo, calcolatore e ambien­te sono del tutto artificiali e fittizie: sono linee che ta­gliano i canali lungo i quali vengono trasmesse le informazioni o le differenze; non sono confini del sistema pen­sante. Quello che pensa è il sistema totale, che procede per tentativi ed errori, ed è costituito dall’uomo più l’am­biente. 
    Ma se accettate l’autocorrezione come caratteristica de­cisiva del processo di pensiero o mentale, allora ovvia­mente all’interno dell’uomo c’è ‘pensiero’ a livello neuro­vegetativo per il mantenimento di diverse variabili in­terne. Analogamente il calcolatore, qualora controlli la sua temperatura interna, effettua al suo interno qualche semplice processo di pensiero. 
    Ora cominciamo a scorgere alcuni degli errori episte­mologici della civiltà occidentale. In armonia col clima di pensiero che predominava verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, Darwin formulò una teoria della selezione naturale e dell’evoluzione in cui l’unità di sopravvivenza era o la famiglia o la specie o la sottospecie o qualcosa del genere. Ma oggi è pacifico che non è questa l’unità di sopravvivenza nel mondo biologico reale: l’unità di so­pravvivenza è l’organismo più l’ambiente. Stiamo impa­rando sulla nostra pelle che l’organismo che distrugge il suo ambiente distrugge se stesso. 
    Se ora modifichiamo l’unità di sopravvivenza darwinia­na fino a includervi l’ambiente e l’interazione fra organi­smo e ambiente, appare una stranissima e sorprendente identità: l’unità di sopravvivenza evolutiva risulta coinci­dere con l’unità mentale. 
    Una volta si pensava a una gerarchia di taxa (individuo, famiglia, sottospecie, specie, eccetera) come unità di so­pravvivenza; ora invece si scorge una diversa gerarchia di unità — gene nell’organismo, organismo nell’ambiente, eco-sistema, eccetera. L’ecologia, nel senso più ampio, appare come lo studio dell’interazione e della sopravvivenza delle idee e dei programmi (cioè differenze, complessi di diffe­renze, eccetera) nei circuiti. 
    Vediamo ora che cosa succede quando si commette l’er­rore epistemologico di scegliere l’unità sbagliata: si fini­sce col contrapporre una specie a un’altra che la circon­da o all’ambiente in cui vive. Uomo contro natura. In effetti si finisce con l’inquinare la Kaneohe Bay, col ri­durre il lago Erie a una poltiglia verde e col dire: «Costruiamo bombe atomiche più potenti per annientare i nostri vicini di casa». Vi è un’ecologia delle idee cattive, proprio come vi è un’ecologia delle erbacce, ed è una ca­ratteristica del sistema che l’errore di base si propaghi. Come un parassita tenace esso si ramifica nei tessuti vi­tali, e tutto finisce in un caos piuttosto singolare. Quan­do si restringe la propria epistemologia e si agisce sulla base della premessa: « Ciò che interessa me sono io, o la mia organizzazione, o la mia specie », si escludono dalla considerazione altri anelli della struttura: si decide di vo­lersi sbarazzare dei sottoprodotti della vita umana e si decide che il lago Erie sarà un buon posto per scaricar­veli; si dimentica però che il sistema eco-mentale chiamato lago Erie è una parte del nostro più ampio sistema eco-mentale e che se il lago Erie viene spinto alla follia, la sua follia viene incorporata nel più vasto sistema del nostro pensiero e della nostra esperienza. 
    Voi e io siamo così profondamente imbevuti, per la nostra formazione culturale, dell’idea dell’ ‘io’, dell’or­ganizzazione e della specie, che è difficile credere che l’uomo possa vedere i suoi rapporti con l’ambiente in un qualunque altro modo che non sia quello che ho biasi­mato con un po di cattiveria negli evoluzionisti dell’Ot­tocento. Devo perciò spendere qualche parola sulla storia di tale questione. 
    Dal punto di vista antropologico, ciò che sappiamo sul materiale primitivo sembrerebbe indicare che l’uomo nel­la società traesse spunti dal mondo naturale circostante e li applicasse in un qualche modo metaforico alla società in cui viveva.
    Cioè egli si identificava o si immedesimava col mondo naturale circostante e prendeva questa imme­desimazione a guida della propria organizzazione sociale e delle proprie teorie sulla psicologia. Si trattava del cosid­detto ‘totemismo’. 
    In un certo senso era tutto assurdo, eppure era più sensato della maggior parte delle cose che facciamo oggi, poiché il mondo naturale intorno a noi possiede in realtà questa struttura generale di sistema, ed è quindi una fonte di metafore adatte a porre l’uomo in grado di capire se stesso all’interno della sua organizzazione sociale. 
    Il passo successivo, a quanto sembra, fu quello di inver­tire il procedimento: trarre spunti da se stessi e applicarli al mondo naturale circostante: si trattò dell’ ‘animismo’, che estende la nozione di personalità o mente alle mon­tagne, ai fiumi, alle foreste e così via. Anche questa non era una cattiva idea da molti punti di vista. Ma il passo successivo fu quello di separare la nozione di mente dal mondo naturale, e allora si ebbe la nozione di divinità. 
    Ma quando si separa la mente dalla struttura in cui è immanente — come un rapporto umano, la società umana, o l’ecosistema — si commette, io credo, un errore fonda­mentale, di cui a lungo andare sicuramente si soffrirà. 
    La lotta può essere un elemento positivo per la nostra anima fino al punto in cui vincere la battaglia è facile. Ma quando si possiede una tecnica tanto sviluppata da poter veramente agire sulla base dei propri errori epi­stemologici e provocare disordine e distruzione nel mondo in cui viviamo, allora l’errore è mortale. L’errore episte­mologico è ammissibile, va bene, ma solo fino al momento in cui ci crea intorno un universo in cui quell’errore divie­ne immanente nei mostruosi cambiamenti del mondo che abbiamo creato e in cui ora cerchiamo di vivere. 
    Vedete, non stiamo parlando della vecchia cara Mente Suprema di Aristotele, di san Tommaso d’Aquino, e di tutto il resto nel corso dei secoli; quella Mente Suprema che era infallibile e incorruttibile. Stiamo parlando della mente immanente, la quale è corruttibilissima, come tut­ti voi sapete per esperienza professionale. Questo è pro­prio il motivo per cui voi siete qui. Questi circuiti ed equilibri della natura possono facilmente guastai-si, e cer­tamente si guastano quando certi errori fondamentali del nostro pensiero vengono rinforzati da migliaia di partico­lari culturali. 
    Non so quanti oggi credano veramente che esista una mente totale separata dal corpo, separata dalla società e separata dalla natura; ma a quelli tra voi che direbbero che si tratta solo di ‘superstizione’, dirò che sono pronto a scommettere che in pochi minuti posso dimostrare loro che le abitudini e i modi di pensare che si accompagnano a quelle superstizioni esistono ancora nella loro testa e an­cora determinano una larga parte dei loro pensieri. L’idea che voi potete vedermi regge ancora i vostri pensieri e le vostre azioni anche se intellettualmente voi forse sapete che non è così. Allo stesso modo i più di noi sono ancora guidati da epistemologie che sappiamo errate. Vediamo alcune delle implicazioni di ciò che ho detto. 
    Guardiamo al modo in cui le nozioni fondamentali sono rinforzate ed espresse in ogni genere di particolari del nostro comportamento. Il fatto stesso che io stia monologando davanti a voi è una norma della nostra sottocul­tura accademica, ma l’idea che io possa insegnare a voi, unilateralmente, è derivata dalla premessa che la mente controlla il corpo. E ogni volta che uno psicoterapeuta scivola in una terapia unilaterale, egli obbedisce alla stes­sa premessa. Di fatto, io, stando in piedi davanti a voi, sto compiendo un atto di prevaricazione, rinforzando nel­la vostra mente un atto di pensiero che in realtà è assur­do. Tutti noi continuamente facciamo questo, perché ciò è insito nei particolari del nostro comportamento.
    Notate che io sto in piedi, mentre voi state seduti. 
    Lo stesso ragionamento conduce ovviamente alle teorie del controllo e alle teorie del potere. In quell’universo, se non si ottiene ciò che si vuole, si dà la colpa a qualcuno e si erige una prigione o un manicomio, secondo i gusti, e vi si caccia il colpevole, se si è capaci di identificarlo. Se non si è capaci di identificano, si dice: "È il sistema".
    Questo è grosso modo il punto a cui sono giunti oggi i nostri giovani, che dànno la colpa al sistema; ma noi sap­piamo che non è ai sistemi che si deve dare la colpa: anch’essi fanno parte dello stesso errore. 
    Poi naturalmente c’è il problema delle armi. Se voi cre­dete in quel mondo unilaterale e pensate che anche gli altri ci credano (e probabilmente avete ragione, ci credo­no), allora la cosa da fare, ovviamente, è procurarsi delle armi, colpirli duramente e ‘controllarli’. 
    Si dice che il potere corrompe; ma questo, credo, è as­surdo: è l’idea del potere che corrompe. Il potere corrom­pe più rapidamente quelli che credono in esso, e sono proprio costoro quelli che più ardentemente lo desiderano. Ovviamente il nostro sistema democratico tende a elar­gire il potere a coloro che lo bramano, e fornisce ogni occa­sione di evitarlo a coloro che non lo vogliono. Non è una soluzione molto soddisfacente, se il potere corrompe pro­prio quelli che ci credono e lo vogliono. 
    Forse il potere unilaterale non esiste: dopo tutto, l’uo­mo ‘al potere’ dipende dall’informazione che continua­mente deve ricevere dall’esterno. Egli reagisce a quell’in­formazione nella stessa misura in cui ‘fa’ accadere le cose. Per Goebbels non è possibile controllare l’opinione pubblica tedesca, poiché per farlo egli deve avere spie o confidenti o sondaggi d’opinione che gli dicano che cosa pensano i tedeschi; egli deve poi decidere che cosa ri­spondere a quest’informazione, e poi di nuovo scoprire come essi reagiscono. È un’interazione e non una situa­zione unidirezionale. 
    Ma il mito del potere è, naturalmente, un mito poten­tissimo, e probabilmente la maggior parte delle persone a questo mondo più o meno ci credono. È un mito che, se tutti ci credono, nella stessa misura si auto-convalida. Ma è tuttavia una follia epistemologica e conduce senza scampo a disastri di vario genere. 
    Infine c’è il problema dell’urgenza: è ora chiaro a molti che immensi pericoli di catastrofe sono germogliati sugli errori epistemologici occidentali. Essi vanno dagli inset­ticidi all’inquinamento, dalla ricaduta delle scorie radioat­tive alla possibilità di fusione della calotta antartica. So­prattutto, la nostra incredibile volontà di salvare la vita dei singoli individui ha creato la possibilità di una care­stia mondiale nell’immediato futuro. 
    Forse abbiamo una possibilità alla pari di superare i prossimi vent’anni senza disastri più gravi della semplice distruzione di una o più nazioni. 
    Io credo che questa massiccia congerie di minacce al­l’uomo e ai suoi sistemi ecologici sorga da errori nelle nostre abitudini di pensiero a livelli profondi e in parte inconsci. 
    Come terapeuti, chiaramente abbiamo un dovere. 
    Primo, di far luce in noi stessi; e poi di cercare ogni segno di luce negli altri, e di aiutarli e rinforzarli in tutto ciò che di saggio vi sia in loro. 
    E vi sono oasi di saggezza che ancora sopravvivono nel mondo. Buona parte della filosofia orientale è più saggia di qualunque cosa abbia prodotto l’Occidente, e alcuni degli sforzi confusi dei nostri giovani contengono più saggezza delle convenzioni dell’establishment.

    Patologie dell'Epistemologia, 1969

    giovedì 10 novembre 2011

    Sull Tao Lull



    il Te del Tao: XXVII - L'USO DELL'ABILITÀ


    XXVII - L'USO DELL'ABILITÀ

    Chi ben viaggia non lascia solchi né impronte,
    chi ben parla non ha pecche né biasimi,
    chi ben conta non adopra bastoncelli né listelle,
    chi ben chiude non usa sbarre né paletti
    eppure non si può aprire,
    chi ben lega non usa corde né vincoli
    eppure non si può sciogliere.
    Per questo il santo
    sempre ben soccorre gli uomini
    e perciò non vi sono uomini respinti,
    sempre bene soccorre le creature
    e perciò non vi sono creature respinte:
    ciò si chiama trasfondere l'illuminazione.
    Così l'uomo che è buono
    è maestro dell'uomo non buono,
    l'uomo che non è buono
    è profitto all'uomo buono.
    Chi non apprezza un tal maestro,
    chi non ha caro un tal profitto,
    anche se è sapiente cade in grave inganno:
    questo si chiama il mistero essenziale.