venerdì 11 novembre 2011

Sperimentare (3 di Bastoni)


Un'"esperienza" è qualcosa che può essere archiviato in un diario, catturato in un film o incollato in un album. "Sperimentare" è la sensazione stessa di meraviglia, il fremito della comunione, il tocco delicato del nostro essere in connessione con tutto ciò che ci circonda. La donna raffigurata in questa carta non sta solo toccando quest'albero, è in comunione con lui, è pressoché fusa con lui. È un vecchio albero, e ha visto tempi molto duri. Il tocco della donna è delicato, devoto, e il bianco della parte interna del suo cappuccio riflette la purezza del suo cuore. È umile, semplice ed è questo il modo giusto per avvicinarsi alla natura. La natura non suona alcun tamburo a grancassa quando si manifesta in un'esplosione di fiori, né suona un canto funebre quando gli alberi lasciano cadere le foglie in autunno. Ma quando ci avviciniamo a lei con lo spirito giusto, ha molti segreti da condividere. Se ultimamente non hai ascoltato il sussurro della natura, questo è il momento giusto per dargliene l'occasione.

Guardati semplicemente intorno, guarda negli occhi di un bambino, oppure negli occhi della persona che ami, di tua madre, o di un amico - oppure senti semplicemente un albero. Hai mai abbracciato un albero? Abbraccia un albero, e un giorno scoprirai che non solo tu lo hai abbracciato, anche l'albero ti ha corrisposto, anche l'albero ha abbracciato te. Allora, per la prima volta, saprai che l'albero non è solo la forma, non appartiene solo a una data specie botanica, è un Dio sconosciuto - così verde nel tuo giardino, così ricco di fiori, così vicino a te, ti lancia un richiamo, insistentemente.

la Biblioteca del Tao


L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, orlati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d’una biblioteca normale. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l’altro di soddisfare le necessità fecali. Di qui passa la scala spirale, che s’inabissa e s’innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita (se realmente fosse tale, perché questa duplicazione illusoria?); io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l’infinito… La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade. Ve ne sono due per esagono, su una traversa. La luce che emettono è insufficiente, incessante.
Come tutti gli uomini della Biblioteca, in gioventú io ho viaggiato; ho peregrinato in cerca di un libro, forse del catalogo dei cataloghi; ora che i miei occhi quasi non possono decifrare ciò che scrivo, mi preparo a morire a poche leghe dall’esagono in cui nacqui. Morto, non mancheranno mani pietose che mi gettino fuori della ringhiera; mia sepoltura sarà l’aria insondabile: il mio corpo affonderà lungamente e si corromperà e dissolverà nel vento generato dalla caduta, che è infinita. Io affermo che la Biblioteca è interminabile. Gli idealisti argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragionano che è inconcepibile una sala triangolare o pentagonale. (I mistici pretendono di avere, nell’estasi, la rivelazione d’una camera circolare con un gran libro circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la loro testimonianza è sospetta; le loro parole, oscure. Questo libro ciclico è Dio). Mi basti, per ora, ripetere la sentenza classica: “La Biblioteca è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile”.
A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero. Vi sono anche delle lettere sulla costola di ciascun libro; non, però, che indichino o prefigurino ciò che diranno le pagine. So che questa incoerenza, un tempo, parve misteriosa. Prima d’accennare alla soluzione (la cui scoperta, a prescindere dalle sue tragiche proiezioni, è forse il fatto capitale della storia) voglio rammentare alcuni assiomi.
Primo: La Biblioteca esiste ab aeterno. Di questa verità, il cui corollario immediato è l’eternità futura del mondo, nessuna mente ragionevole può dubitare. L’uomo, questo imperfetto bibliotecario, può essere opera del caso o di demiurghi malevoli; l’universo, con la sua elegante dotazione di scaffali, di tomi enigmatici, di infaticabili scale per il viaggiatore e di latrine per il bibliotecario seduto, non può essere che l’opera di un dio. Per avvertire la distanza che c’è tra il divino e l’umano, basta paragonare questi rozzi, tremuli simboli che la mia fallibile mano sgorbia sulla copertina d’un libro, con le lettere organiche dell’interno: puntuali, delicate, nerissime, inimitabilmente simmetriche.
Secondo: Il numero dei simboli ortografici è di venticinque (1). Questa constatazione permise, or sono tre secoli, di formulare una teoria generale della Biblioteca e di risolvere soddisfacentemente il problema che nessuna congettura aveva permesso di decifrare: la natura informe e caotica di quasi tutti i libri. Uno di questi, che mio padre vide nell’esagono del circuito quindici novantaquattro, constava delle lettere M C V, perversamente ripetute dalla prima all’ultima riga. Un altro (molto consultato in questa zona) è un mero labirinto di lettere, ma l’ultima pagina dice Oh tempo le tue piramidi. È ormai risaputo: per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze. (So d’una regione barbarica i cui bibliotecari ripudiano la superstiziosa e vana abitudine di cercare un senso nei libri, e la paragonano a quella di cercare un senso nei sogni o nelle linee caotiche della mano… Ammettono che gli inventori della scrittura imitarono i venticinque simboli naturali, ma sostengono che questa applicazione è casuale, e che i libri non significano nulla di per sé. Questa affermazione, lo vedremo, non è del tutto erronea).
Per molto tempo si credette che questi libri impenetrabili corrispondessero a lingue preferite o remote. Ora, è vero che gli uomini piú antichi, i primi bibliotecari, parlavano una lingua molto diversa da quella che noi parliamo oggi; è vero che poche miglia a destra la lingua è già dialettale, e novanta piani piú sopra è incomprensibile. Tutto questo, lo ripeto, è vero, ma quattrocentodieci pagine di inalterabili M C V non possono corrispondere ad alcun idioma, per dialettale o rudimentale che sia. Alcuni insinuarono che ogni lettera poteva influire sulla seguente, e che il valore di M C V nella terza riga della pagina 71 non era lo stesso di quello che la medesima serie poteva avere in altra riga di altra pagina; ma questa vaga tesi non prosperò. Altri pensarono a una crittografia; quest’ipotesi è stata universalmente accettata, ma non nel senso in cui la formularono i suoi inventori.


 Cinquecento anni fa, il capo d’un esagono superiore (2) trovò un libro tanto confuso come gli altri, ma in cui v’erano quasi due pagine di scrittura omogenea, verosimilmente leggibile. Mostrò la sua scoperta a un decifratore ambulante, e questi gli disse che erano scritte in portoghese; altri gli assicurò che erano scritte in yiddish. Poté infine stabilirsi, dopo ricerche che durarono quasi un secolo, che si trattava d’un dialetto samoiedo-lituano del guaraní, con inflessioni di arabo classico. Si decifrò anche il contenuto: nozioni di analisi combinatoria, illustrate con esempi di permutazioni a ripetizione illimitata. Questi esempi permisero a un bibliotecario di genio di scoprire la legge fondamentale della Biblioteca.
Questo pensatore osservò che tutti i libri, per diversi che fossero, constavano di elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Stabili, inoltre, un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato: non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identici. Da queste premesse incontrovertibili dedusse che la Biblioteca è totale, e che i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch’è dato di esprimere, in tutte le lingue. Tutto: la storia minuziosa dell’avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di questi cataloghi, la dimostrazione del catalogo falso, l’evangelo gnostico di Basilide, il commento di questo evangelo, il commento del commento di questo evangelo, il resoconto veridico della tua morte, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpolazioni di ogni libro in tutti i libri.
Quando si proclamò che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima impressione fu di straordinaria felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto. Non v’era problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non esistesse: in un qualche esagono. L’universo era giustificato, l’universo attingeva bruscamente le dimensioni illimitate della speranza. A quel tempo si parlò molto delle Vendicazioni: libri di apologia e di profezia che giustificavano per sempre gli atti di ciascun uomo dell’universo e serbavano arcani prodigiosi per il suo futuro. Migliaia di ambiziosi abbandonarono il dolce esagono natale e si lanciarono su per le scale, spinti dal vano proposito di trovare la propria Vendicazione.
Questi pellegrini s’accapigliavano negli stretti corridoi, profferivano oscure minacce, si strangolavano per le scale divine, scagliavano i libri ingannevoli nei pozzi senza fondo, vi morivano essi stessi, precipitativi dagli uomini di regioni remote. Molti impazzirono. Le Vendicazioni esistono (io ne ho viste due, che si riferiscono a persone da venire, e forse non immaginarie), ma quei ricercatori dimenticavano che la possibilità che un uomo trovi la sua, o qualche perfida variante della sua, è sostanzialmente zero.
Anche si sperò, a quel tempo, nella spiegazione dei misteri fondamentali dell’umanità: l’origine della Biblioteca e del tempo. È verosimile che di questi gravi misteri possa darsi una spiegazione in parole: se il linguaggio dei filosofi non basta, la multiforme Biblioteca avrà prodotto essa stessa l’inaudito idioma necessario, e i vocabolari e la grammatica di questa lingua. Già da quattro secoli gli uomini affaticano gli esagoni… Vi sono cercatori ufficiali, inquisitori. Li ho visti nell’esercizio della loro funzione: arrivano sempre scoraggiati; parlano di scale senza un gradino, dove per poco non s’ammazzarono; parlano di scale e di gallerie con il bibliotecario; ogni tanto, prendono il libro piú vicino e lo sfogliano, in cerca di parole infami. Nessuno, visibilmente, s’aspetta di trovare nulla.
Alla speranza smodata, com’è naturale, successe un’eccessiva depressione. La certezza che un qualche scaffale d’un qualche esagono celava libri preziosi, che questi libri preziosi erano inaccessibili, parve quasi intollerabile. Una setta blasfema suggerí che s’interrompessero le ricerche e che tutti gli uomini si dessero a mescolare lettere e simboli, fino a costruire, per un improbabile dono del caso, questi libri canonici. Le autorità si videro obbligate a promulgare ordinanze severe. La setta sparí, ma nella mia fanciullezza ho visto vecchi uomini che lungamente s’occultavano nelle latrine, con dischetti di metallo in un bossolo proibito, e debolmente rimediavano al divino disordine.
Altri, per contro, credettero che l’importante fosse di sbarazzarsi delle opere inutili. Invadevano gli esagoni, esibivano credenziali non sempre false, sfogliavano stizzosamente un volume e condannavano scaffali interi: al loro furore igienico, ascetico, si deve l’insensata distruzione di milioni di libri. Il loro nome è esecrato, ma chi si dispera per i “tesori” che la frenesia di coloro distrusse, trascura due fatti evidenti. Primo: la Biblioteca è cosí enorme che ogni riduzione d’origine umana risulta infinitesima. Secondo: ogni esemplare è unico, insostituibile, ma (poiché la Biblioteca è totale) restano sempre varie centinaia di migliaia di facsimili imperfetti, cioè di opere che non differiscono che per una lettera o per una virgola. Contrariamente all’opinione generale, credo dunque che le conseguenze delle depredazioni commesse dai Purificatori siano state esagerate a causa dell’orrore che quei fanatici ispirarono. Li sospingeva l’idea delirante di conquistare i libri dell’Esagono Cremisi: libri di formato minore dei normali, onnipotenti, illustrati e magici.
Sappiamo anche di un’altra superstizione di quel tempo: quella dell’Uomo del Libro. In un certo scaffale d’un certo esagono (ragionarono gli uomini) deve esistere un libro che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un bibliotecario l’ha letto, ed è simile a un dio. Nel linguaggio di questa zona si conservano alcune tracce del culto di quel funzionario remoto. Molti peregrinarono in cerca di Lui, si spinsero invano nelle piú lontane gallerie. Come localizzare il venerando esagono segreto che l’ospitava? Qualcuno propose un metodo regressivo: per localizzare il libro A, consultare previamente il libro B; per localizzare il libro B, consultare previamente il libro C; e cosí all’infinito… In avventure come queste ho prodigato e consumato i miei anni.
Non mi sembra inverosimile che in un certo scaffale dell’universo esista un libro totale (3); prego gli dèi ignoti che un uomo – uno solo, e sia pure da migliaia d’anni! – l’abbia trovato e l’abbia letto. Se l’onore e la sapienza e la felicità non sono per me, che siano per altri. Che il cielo esista, anche se il mio posto è all’inferno. Ch’io sia oltraggiato e annientato, ma che per un istante, in un essere, la Tua enorme Biblioteca si giustifichi.
Affermano gli empî che il nonsenso è normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l’umile e semplice coerenza) vi è una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della “Biblioteca febbrile, i cui casuali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio”. Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realtà, la Biblioteca include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto. Inutile osservarmi che il miglior volume dei molti esagoni che amministro s’intitola Tuono pettinato, un altro Il crampo di gesso e un altro Axaxaxas mlö. Queste proposizioni, a prima vista incoerenti, sono indubbiamente suscettibili d’una giustificazione crittografica o allegorica; questa giustificazione è verbale, e però, ex hypothesi, già figura nella Biblioteca. Non posso immaginare alcuna combinazione di caratteri
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che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato. Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in uno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio. Parlare è incorrere in tautologie. Questa epistola inutile e verbosa già esiste in uno dei trenta volumi dei cinque scaffali di uno degli innumerabili esagoni – e cosí pure la sua confutazione. (Un numero n di lingue possibili usa lo stesso vocabolario; in alcune, il simbolo biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali, ma biblioteca sta qui per pane, o per piramide, o per qualsiasi altra cosa, e per altre cose stanno le sette parole che la definiscono. Tu, che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?)
Lo scrivere metodico mi distrae dalla presente condizione degli uomini, cui la certezza di ciò, che tutto sta scritto, annienta o istupidisce. So di distretti in cui i giovani si prosternano dinanzi ai libri e ne baciano con barbarie le pagine, ma non sanno decifrare una sola lettera. Le epidemie, le discordie eretiche, le peregrinazioni che inevitabilmente degenerano in banditismo, hanno decimato la popolazione. Credo di aver già accennato ai suicidi, ogni anno piú frequenti. M’inganneranno, forse, la vecchiezza e il timore, ma sospetto che la specie umana – l’unica – stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta.
Aggiungo: infinita. Non introduco quest’aggettivo per un’abitudine retorica; dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito. Chi lo giudica limitato, suppone che in qualche luogo remoto i corridoi e le scale e gli esagoni possano inconcepibilmente cessare; ciò che è assurdo. Chi lo immagina senza limiti, dimentica che è limitato il numero possibile dei libri. Io m’arrischio a insinuare questa soluzione: La Biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine (4).

1941, Mar della Plata
Jorge Luis Borges 

1) II manoscritto originale non contiene cifre né maiuscole. La punteggiatura è limitata alla virgola e al punto. Questi due segni, lo spazio, e le ventidue lettere d’alfabeto, sono i venticinque simboli sufficienti che enumera lo sconosciuto [N.d.E.].
2) Prima, per ogni tre esagoni c’era un uomo. Il suicidio e le malattie polmonari hanno distrutto questa proporzione. Fatto indicibilmente malinconico: a volte ho viaggiato molte notti per corridoi e scale levigate senza trovare un solo bibliotecario.
3) Ripeto: perché un libro esista, basta che sia possibile. Solo l’impossibile è escluso. Per esempio: nessun libro è anche una scala, sebbene esistano sicuramente dei libri che discutono, che negano, che dimostrano questa possibilità, e altri la cui struttura corrisponde a quella d’una scala.
4) Letizia Alvarez de Toledo ha osservato che la vasta Biblioteca è inutile; a rigore, basterebbe un solo volume, di formato comune, stampato in corpo nove o in corpo dieci, e composto d’un numero infinito di fogli infinitamente sottili. (Cavalieri, al principio del secolo xvii, affermò che ogni corpo solido è la sovrapposizione d’un numero infinito di piani). Il maneggio di questo serico vademecum non sarebbe comodo: ogni foglio apparente si sdoppierebbe in altri simili; l’inconcepibile foglio centrale non avrebbe rovescio.


















Cimetière des Rois, Plainpalais Cemetery, Geneva, CH
"... and ne forhtedon na" (Giammai con timore)

patologie del Tao


Per cominciare, vorrei fare con voi un piccolo esperi­mento. Alzi la mano chi crede di vedermi. Vedo molte mani alzate... quindi ne deduco che la pazzia ama stare in compagnia. Naturalmente, voi non vedete ‘realmente’ me: quello che ‘vedete’ è un mucchio di informazioni su di me, che voi sintetizzate in una immagine visiva di me. Voi vi costruite quell’immagine.
Lo proposizione ‘Io vedo te’ o ‘Tu vedi me’ è una proposizione che contiene in sé ciò che chiamo episte­mologia. Contiene in sé ipotesi su come ricaviamo l’in­formazione, su che razza di roba sia l’informazione, e cosl via. Quando voi dite che mi ‘vedete’ e alzate innocente-mente la mano, di fatto vi conformate a certe proposizioni relative alla natura della conoscenza e alla natura dell’uni­verso in cui viviamo e al modo in cui veniamo a cono­scerlo. Mi propongo di dimostrare che molte di queste proposizioni sono in realtà false, anche se tutti noi le condividiamo. Nel caso di siffatte proposizioni epistemo­logiche, l’errore non viene scoperto facilmente e non vie­ne punito molto presto. Voi e io siamo in grado di andare in giro per il mondo, di volare fino alle Hawaii, di pre­sentare memorie sulla psichiatria, di trovare il nostro po­sto a questi tavoli, e in generale di agire ragionevolmente come esseri umani nonostante questo profondo errore. Le premesse errate, in effetti, funzionano.
D’altra parte, le premesse funzionano solo fino a un certo limite, e se uno si porta dietro gravi errori episte­mologici, a qualche stadio o in certe circostanze si accor­gerà che quelle premesse non funzionano più; e a questo punto scoprirà con orrore che è tremendamente difficile liberarsi dall’errore che ci sta appiccicato addosso. È co­me se avessimo toccato del miele. Come il miele, la fal­sificazione si propaga: ogni cosa con cui si cerca di sbrat­tarla diviene appiccicosa, e le mani restano sempre appiccicose.
...
Dopo tutto, zero è diverso da uno, e pertanto zero può essere una causa, il che non è ammissibile nelle scien­ze fisiche. La lettera che non avete scritto può provocare una risposta furiosa, poiché zero può essere metà del bit d’informazione necessario. Anche l’identità può essere una causa, poiché l’identità differisce dalla differenza. 
Queste strane relazioni valgono perché noi organismi (e molte delle macchine che costruiamo) ci troviamo a es­ser capaci d’immagazzinare energia: ci troviamo a posse­dere la struttura circuitale necessaria a che il nostro con­sumo di energia possa essere una funzione decrescente del­l’energia entrante. Se date un calcio a una pietra, essa si muove con l’energia che ha ricevuto dalla vostra pedata; ma se date un calcio a un cane, esso si muove con l’ener­gia che ricava dal suo metabolismo. Un’ameba, per un tempo considerevole, si muove di più quando è affama­ta. Il suo consumo di energia è inversamente proporzio­nale all’energia entrante. 
Questi strani effetti propri della creatura (e che non si presentano nel pleroma) dipendono anche dalla struttura circuitale, e un circuito è un canale chiuso (o una rete di canali) lungo il quale vengono trasmesse differenze (o trasformate di differenze). 
D’un tratto, negli ultimi vent’anni, questi concetti si sono fusi per darci un’ampia visione del mondo in cui vi­viamo - un nuovo modo d’intendere ciò che è una mente. Voglio elencare quelle che a me sembrano le caratteristi­che essenziali minime di un sistema che io accetterei come caratteristiche della mente: 

I. Il sistema agirà su e con differenze. 
2. Il sistema consisterà in anelli chiusi o reti di canali lungo i quali verranno trasmesse le differenze e le loro trasformate. (Ciò che viene trasmesso su un neurone non è un impulso, ma la notizia di una differenza). 
3. Molti degli eventi interni al sistema riceveranno energia dal componente che risponde piuttosto che dal­l’effetto del componente innescante. 
4. Il sistema si dimostrerà autocorrettivo, nella direzio­ne dell’omeostasi o nella direzione dell’instabilità. L’au­tocorrezione implica il procedimento per tentativi ed er­rori. 

Ora queste caratteristiche minime della mente sono ge­nerate ogni qualvolta e ovunque esista l’adeguata strut­tura circuitale di anelli causali. La mente è funzione ne­cessaria, inevitabile, di un’adeguata complessità, ovunque questa complessità si presenti. 
Ma quella complessità si presenta in moltissimi altri posti, oltre che nella mia e nella vostra testa. Torneremo in seguito al problema se un uomo o un calcolatore abbia­no una mente. Per il momento dirò che una foresta di sequoie o un banco corallifero con il loro aggregato di organismi dalle relazioni intrecciate hanno la necessaria struttura circuitale. L’energia necessaria per le risposte di ogni organismo è fornita dal suo metabolismo e il sistema globale agisce in modo autocorrettivo in diverse maniere. Una società umana è simile a tutto ciò e possiede anelli causali chiusi. Ogni organizzazione umana mostra sia ca­ratteristiche autocorrettive sia una potenziale instabilità. 
Consideriamo ora per un momento se un calcolatore pensi. Io direi di no. Ciò che ‘pensa’ e procede per ‘ten­tativi ed errori’ è l’uomo più il calcolatore più l’ambiente. E le linee di demarcazione tra uomo, calcolatore e ambien­te sono del tutto artificiali e fittizie: sono linee che ta­gliano i canali lungo i quali vengono trasmesse le informazioni o le differenze; non sono confini del sistema pen­sante. Quello che pensa è il sistema totale, che procede per tentativi ed errori, ed è costituito dall’uomo più l’am­biente. 
Ma se accettate l’autocorrezione come caratteristica de­cisiva del processo di pensiero o mentale, allora ovvia­mente all’interno dell’uomo c’è ‘pensiero’ a livello neuro­vegetativo per il mantenimento di diverse variabili in­terne. Analogamente il calcolatore, qualora controlli la sua temperatura interna, effettua al suo interno qualche semplice processo di pensiero. 
Ora cominciamo a scorgere alcuni degli errori episte­mologici della civiltà occidentale. In armonia col clima di pensiero che predominava verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, Darwin formulò una teoria della selezione naturale e dell’evoluzione in cui l’unità di sopravvivenza era o la famiglia o la specie o la sottospecie o qualcosa del genere. Ma oggi è pacifico che non è questa l’unità di sopravvivenza nel mondo biologico reale: l’unità di so­pravvivenza è l’organismo più l’ambiente. Stiamo impa­rando sulla nostra pelle che l’organismo che distrugge il suo ambiente distrugge se stesso. 
Se ora modifichiamo l’unità di sopravvivenza darwinia­na fino a includervi l’ambiente e l’interazione fra organi­smo e ambiente, appare una stranissima e sorprendente identità: l’unità di sopravvivenza evolutiva risulta coinci­dere con l’unità mentale. 
Una volta si pensava a una gerarchia di taxa (individuo, famiglia, sottospecie, specie, eccetera) come unità di so­pravvivenza; ora invece si scorge una diversa gerarchia di unità — gene nell’organismo, organismo nell’ambiente, eco-sistema, eccetera. L’ecologia, nel senso più ampio, appare come lo studio dell’interazione e della sopravvivenza delle idee e dei programmi (cioè differenze, complessi di diffe­renze, eccetera) nei circuiti. 
Vediamo ora che cosa succede quando si commette l’er­rore epistemologico di scegliere l’unità sbagliata: si fini­sce col contrapporre una specie a un’altra che la circon­da o all’ambiente in cui vive. Uomo contro natura. In effetti si finisce con l’inquinare la Kaneohe Bay, col ri­durre il lago Erie a una poltiglia verde e col dire: «Costruiamo bombe atomiche più potenti per annientare i nostri vicini di casa». Vi è un’ecologia delle idee cattive, proprio come vi è un’ecologia delle erbacce, ed è una ca­ratteristica del sistema che l’errore di base si propaghi. Come un parassita tenace esso si ramifica nei tessuti vi­tali, e tutto finisce in un caos piuttosto singolare. Quan­do si restringe la propria epistemologia e si agisce sulla base della premessa: « Ciò che interessa me sono io, o la mia organizzazione, o la mia specie », si escludono dalla considerazione altri anelli della struttura: si decide di vo­lersi sbarazzare dei sottoprodotti della vita umana e si decide che il lago Erie sarà un buon posto per scaricar­veli; si dimentica però che il sistema eco-mentale chiamato lago Erie è una parte del nostro più ampio sistema eco-mentale e che se il lago Erie viene spinto alla follia, la sua follia viene incorporata nel più vasto sistema del nostro pensiero e della nostra esperienza. 
Voi e io siamo così profondamente imbevuti, per la nostra formazione culturale, dell’idea dell’ ‘io’, dell’or­ganizzazione e della specie, che è difficile credere che l’uomo possa vedere i suoi rapporti con l’ambiente in un qualunque altro modo che non sia quello che ho biasi­mato con un po di cattiveria negli evoluzionisti dell’Ot­tocento. Devo perciò spendere qualche parola sulla storia di tale questione. 
Dal punto di vista antropologico, ciò che sappiamo sul materiale primitivo sembrerebbe indicare che l’uomo nel­la società traesse spunti dal mondo naturale circostante e li applicasse in un qualche modo metaforico alla società in cui viveva.
Cioè egli si identificava o si immedesimava col mondo naturale circostante e prendeva questa imme­desimazione a guida della propria organizzazione sociale e delle proprie teorie sulla psicologia. Si trattava del cosid­detto ‘totemismo’. 
In un certo senso era tutto assurdo, eppure era più sensato della maggior parte delle cose che facciamo oggi, poiché il mondo naturale intorno a noi possiede in realtà questa struttura generale di sistema, ed è quindi una fonte di metafore adatte a porre l’uomo in grado di capire se stesso all’interno della sua organizzazione sociale. 
Il passo successivo, a quanto sembra, fu quello di inver­tire il procedimento: trarre spunti da se stessi e applicarli al mondo naturale circostante: si trattò dell’ ‘animismo’, che estende la nozione di personalità o mente alle mon­tagne, ai fiumi, alle foreste e così via. Anche questa non era una cattiva idea da molti punti di vista. Ma il passo successivo fu quello di separare la nozione di mente dal mondo naturale, e allora si ebbe la nozione di divinità. 
Ma quando si separa la mente dalla struttura in cui è immanente — come un rapporto umano, la società umana, o l’ecosistema — si commette, io credo, un errore fonda­mentale, di cui a lungo andare sicuramente si soffrirà. 
La lotta può essere un elemento positivo per la nostra anima fino al punto in cui vincere la battaglia è facile. Ma quando si possiede una tecnica tanto sviluppata da poter veramente agire sulla base dei propri errori epi­stemologici e provocare disordine e distruzione nel mondo in cui viviamo, allora l’errore è mortale. L’errore episte­mologico è ammissibile, va bene, ma solo fino al momento in cui ci crea intorno un universo in cui quell’errore divie­ne immanente nei mostruosi cambiamenti del mondo che abbiamo creato e in cui ora cerchiamo di vivere. 
Vedete, non stiamo parlando della vecchia cara Mente Suprema di Aristotele, di san Tommaso d’Aquino, e di tutto il resto nel corso dei secoli; quella Mente Suprema che era infallibile e incorruttibile. Stiamo parlando della mente immanente, la quale è corruttibilissima, come tut­ti voi sapete per esperienza professionale. Questo è pro­prio il motivo per cui voi siete qui. Questi circuiti ed equilibri della natura possono facilmente guastai-si, e cer­tamente si guastano quando certi errori fondamentali del nostro pensiero vengono rinforzati da migliaia di partico­lari culturali. 
Non so quanti oggi credano veramente che esista una mente totale separata dal corpo, separata dalla società e separata dalla natura; ma a quelli tra voi che direbbero che si tratta solo di ‘superstizione’, dirò che sono pronto a scommettere che in pochi minuti posso dimostrare loro che le abitudini e i modi di pensare che si accompagnano a quelle superstizioni esistono ancora nella loro testa e an­cora determinano una larga parte dei loro pensieri. L’idea che voi potete vedermi regge ancora i vostri pensieri e le vostre azioni anche se intellettualmente voi forse sapete che non è così. Allo stesso modo i più di noi sono ancora guidati da epistemologie che sappiamo errate. Vediamo alcune delle implicazioni di ciò che ho detto. 
Guardiamo al modo in cui le nozioni fondamentali sono rinforzate ed espresse in ogni genere di particolari del nostro comportamento. Il fatto stesso che io stia monologando davanti a voi è una norma della nostra sottocul­tura accademica, ma l’idea che io possa insegnare a voi, unilateralmente, è derivata dalla premessa che la mente controlla il corpo. E ogni volta che uno psicoterapeuta scivola in una terapia unilaterale, egli obbedisce alla stes­sa premessa. Di fatto, io, stando in piedi davanti a voi, sto compiendo un atto di prevaricazione, rinforzando nel­la vostra mente un atto di pensiero che in realtà è assur­do. Tutti noi continuamente facciamo questo, perché ciò è insito nei particolari del nostro comportamento.
Notate che io sto in piedi, mentre voi state seduti. 
Lo stesso ragionamento conduce ovviamente alle teorie del controllo e alle teorie del potere. In quell’universo, se non si ottiene ciò che si vuole, si dà la colpa a qualcuno e si erige una prigione o un manicomio, secondo i gusti, e vi si caccia il colpevole, se si è capaci di identificarlo. Se non si è capaci di identificano, si dice: "È il sistema".
Questo è grosso modo il punto a cui sono giunti oggi i nostri giovani, che dànno la colpa al sistema; ma noi sap­piamo che non è ai sistemi che si deve dare la colpa: anch’essi fanno parte dello stesso errore. 
Poi naturalmente c’è il problema delle armi. Se voi cre­dete in quel mondo unilaterale e pensate che anche gli altri ci credano (e probabilmente avete ragione, ci credo­no), allora la cosa da fare, ovviamente, è procurarsi delle armi, colpirli duramente e ‘controllarli’. 
Si dice che il potere corrompe; ma questo, credo, è as­surdo: è l’idea del potere che corrompe. Il potere corrom­pe più rapidamente quelli che credono in esso, e sono proprio costoro quelli che più ardentemente lo desiderano. Ovviamente il nostro sistema democratico tende a elar­gire il potere a coloro che lo bramano, e fornisce ogni occa­sione di evitarlo a coloro che non lo vogliono. Non è una soluzione molto soddisfacente, se il potere corrompe pro­prio quelli che ci credono e lo vogliono. 
Forse il potere unilaterale non esiste: dopo tutto, l’uo­mo ‘al potere’ dipende dall’informazione che continua­mente deve ricevere dall’esterno. Egli reagisce a quell’in­formazione nella stessa misura in cui ‘fa’ accadere le cose. Per Goebbels non è possibile controllare l’opinione pubblica tedesca, poiché per farlo egli deve avere spie o confidenti o sondaggi d’opinione che gli dicano che cosa pensano i tedeschi; egli deve poi decidere che cosa ri­spondere a quest’informazione, e poi di nuovo scoprire come essi reagiscono. È un’interazione e non una situa­zione unidirezionale. 
Ma il mito del potere è, naturalmente, un mito poten­tissimo, e probabilmente la maggior parte delle persone a questo mondo più o meno ci credono. È un mito che, se tutti ci credono, nella stessa misura si auto-convalida. Ma è tuttavia una follia epistemologica e conduce senza scampo a disastri di vario genere. 
Infine c’è il problema dell’urgenza: è ora chiaro a molti che immensi pericoli di catastrofe sono germogliati sugli errori epistemologici occidentali. Essi vanno dagli inset­ticidi all’inquinamento, dalla ricaduta delle scorie radioat­tive alla possibilità di fusione della calotta antartica. So­prattutto, la nostra incredibile volontà di salvare la vita dei singoli individui ha creato la possibilità di una care­stia mondiale nell’immediato futuro. 
Forse abbiamo una possibilità alla pari di superare i prossimi vent’anni senza disastri più gravi della semplice distruzione di una o più nazioni. 
Io credo che questa massiccia congerie di minacce al­l’uomo e ai suoi sistemi ecologici sorga da errori nelle nostre abitudini di pensiero a livelli profondi e in parte inconsci. 
Come terapeuti, chiaramente abbiamo un dovere. 
Primo, di far luce in noi stessi; e poi di cercare ogni segno di luce negli altri, e di aiutarli e rinforzarli in tutto ciò che di saggio vi sia in loro. 
E vi sono oasi di saggezza che ancora sopravvivono nel mondo. Buona parte della filosofia orientale è più saggia di qualunque cosa abbia prodotto l’Occidente, e alcuni degli sforzi confusi dei nostri giovani contengono più saggezza delle convenzioni dell’establishment.

Patologie dell'Epistemologia, 1969

giovedì 10 novembre 2011

Sull Tao Lull



il Te del Tao: XXVII - L'USO DELL'ABILITÀ


XXVII - L'USO DELL'ABILITÀ

Chi ben viaggia non lascia solchi né impronte,
chi ben parla non ha pecche né biasimi,
chi ben conta non adopra bastoncelli né listelle,
chi ben chiude non usa sbarre né paletti
eppure non si può aprire,
chi ben lega non usa corde né vincoli
eppure non si può sciogliere.
Per questo il santo
sempre ben soccorre gli uomini
e perciò non vi sono uomini respinti,
sempre bene soccorre le creature
e perciò non vi sono creature respinte:
ciò si chiama trasfondere l'illuminazione.
Così l'uomo che è buono
è maestro dell'uomo non buono,
l'uomo che non è buono
è profitto all'uomo buono.
Chi non apprezza un tal maestro,
chi non ha caro un tal profitto,
anche se è sapiente cade in grave inganno:
questo si chiama il mistero essenziale.


remember Tao


organizzazione del Tao umano


Definiti i fondamenti e gli assiomi, la Scuola di Palo Alto di Watzlawick ha descritto l'aspetto pragmatico dell'organizzazione dell'interazione umana, ovvero la struttura dei modelli di interazione che avvengono tramite la comunicazione.
Per definire meglio gli autori hanno chiamato messaggio una singola unità di comunicazione ed interazione una serie di messaggi scambiati tra persone. Un sistema di questo tipo, di cui le persone sono gli  elementi e l'interazione tramite la comunicazione è il processo che le lega, è inevitabilmente un sistema complesso, tuttavia per mezzo degli strumenti sviluppati nell'ambito della teoria generale dei sistemi e della Ia e IIa cibernetica è possibile identificare delle strutture nei processi interattivi, definite come modelli di interazione - un'unità di comunicazione di livello più elevato che rappresenta la ripetizione o ridondanza di eventi comunicativi/comportamentali - che spiega il comportamento osservato in due o più individui non-isolati i quali, per il primo assioma, non possono non-comunicare e quindi non-interagire.
  • L'interazione come sistema
L’interazione può essere considerata come un sistema e la teoria generale dei sistemi ci aiuta a capire la natura dei sistemi interattivi. La Teoria Generale dei Sistemi non è soltanto una teoria dei sistemi della biologia, dell’economia e dell’ingegneria. Nonostante che le materie di cui si occupano presentino aspetti assai diversi, queste teorie dei sistemi particolari hanno in comune tante concezioni che hanno reso possibile sviluppare una teoria più generale la quale organizza i punti in comune in isomorfismi formali.
  • Definizione di sistema
Per cominciare possiamo rifarci alla definizione di sistema che hanno dato A. D. Hall e R. E. Fagen nel 1956: "Un insieme di oggetti e di relazioni tra gli oggetti e tra i loro attributi", in cui gli oggetti sono componenti o parti del sistema, gli attributi sono le proprietà degli oggetti, e le relazioni “tengono insieme” il sistema. Mentre gli oggetti possono essere degli individui, gli attributi che servono ad identificarli sono i loro comportamenti di comunicazione. I due studiosi precisano che "le relazioni dobbiamo considerare nel contesto di un dato insieme di oggetti dipendono dal problema in questione poiché vengono incluse le relazioni importanti o interessanti ed escluse quelle banali o irrilevanti. Decidere quali relazioni siano importanti e quali banali spetta alla persona che si occupa del problema, cioè la questione della banalità è relativa all’interesse che si ha per il problema". Qui l’aspetto che è importante non è il contenuto della comunicazione in sé, ma l’aspetto di relazione (“comando”) della comunicazione umana. Sono sistemi interattivi dunque due o più comunicanti impegnati nel processo di definire la natura della loro relazione (o che si trovano a un livello tale per farlo).
  • Ambiente e sottosistemi
Quando si definisce un sistema è importante definire anche il suo ambiente. "L’ambiente di un dato sistema è costituito dall’insieme di tutti gli oggetti che sono tali che un cambiamento nei loro attributi influenza il sistema e anche di quegli oggetti i cui attributi sono cambiati dal comportamento del sistema ... Ogni sistema dato si può ulteriormente suddividere in sottosistemi e gli oggetti che appartengono a un sottosistema si possono benissimo considerare che facciano parte dell’ambiente di un altro sottosistema".
Che il concetto di sistema-ambiente e sistema-sottosistema sia così elusivo e flessibile spiega in gran parte l’efficacia che la teoria dei sistemi ha nello studio dei sistemi viventi (organici), perché "i sistemi organici sono aperti, cioè scambiano materiali, energie o informazione col loro ambiente. Un sistema è chiuso se non c’è alcuna immissione o emissione di energia in nessuna delle sue forme".
Con lo sviluppo della teoria dei sottosistemi aperti gerarchicamente ordinati, non occorre più isolare artificialmente il sistema dal suo ambiente: essi si compenetrano all’interno della stessa struttura teorica.

  • Proprietà dei sistemi aperti
    Totalità
    Ogni parte di un sistema è in rapporto tale con le parti che lo costituiscono che qualunque cambiamento in una parte causa un cambiamento in tutte le parti e in tutto il sistema. Vale a dire, un sistema non si comporta come un semplice composto di elementi indipendenti, ma coerentemente come un tutto inscindibile. Se le variazioni di una parte non influenzano le altre o il tutto, è allora chiaro che le parti non dipendono allora l’una dall’altra e costituiscono invece un “agglomerato” (heap) che non ha una complessità maggiore di quella che risulta dalla somma dei suoi elementi. La sommatività e la totalità si trovano dunque ai due poli di un continuum ipotetico e si può affermare che un qualche grado di totalità caratterizza sempre i sistemi.
    La non-sommatività in quanto corollario della nozione di totalità ci offre una guida negativa per definire un sistema. Un sistema non può essere fatto coincidere con la somma delle sue parti; infatti, l’analisi formale di segmenti isolati artificialmente distruggerebbe l’oggetto stesso dell’interesse. E’ necessario trascurare le parti per la Gestalt e fare attenzione a ciò che ne sostanzia la complessità, che è l’organizzazione. Il concetto psicologico di Gestalt è soltanto un modo per esprimere il principio di non-sommatività; in altri campi si nutre un grande interesse per la “qualità emergente” (emergent quality) che scaturisce dall’interrelazione di due o più elementi. Quando si considera l’interazione come la conseguenza di certe “proprietà” individuali (ruolo, valori, aspettazioni e motivazioni) il composto –due o più individui che interagiscono- è una pura somma, un “agglomerato” che si può spezzare in unità più fondamentali (individuali). Per contro, quel che consegue dal primo assioma della comunicazione –secondo cui ogni comportamento è comunicazione e quindi non si può non-comunicare- è che le sequenze di comunicazione sono reciprocamente inscindibili; in breve, che l’interazione è non-sommativa.
    Un’altra teoria dell’interazione contraddetta dal principio di totalità è quella dei rapporti unilaterali tra elementi, cioè che A può influenzare B ma non viceversa. Asserire che il comportamento di A provoca il comportamento di B vuol dire negare l’effetto del comportamento di B sulla reazione di A; in realtà, è come distorcere la cronologia degli eventi punteggiando certi rapporti a tratto forte e oscurandone altri. Quando la relazione è complementare è facile perdere la totalità dell’interazione e spezzettarla in unità indipendenti e linearmente causali.

    Retroazione
    L’unione delle parti di un sistema non è dovuta quindi né ai rapporti unilaterali, né a quelli sommativi. Dall’avvento della cibernetica e dalla “scoperta” della retroazione, ci si è resi conto che una correlazione circolare e assi complessa è un fenomeno notevolmente diverso ma non meno scientifico delle nozioni causali più semplici e più ortodosse. Retroazione e circolarità sono il modello causale appropriato per la teoria dei sistemi interattivi.

    Equifinalità
    In un sistema circolare e autoregolantesi, i “risultati” non sono determinati tanto dalle condizioni iniziali quanto dalla natura del processo o dai parametri del sistema. Secondo il principio di equifinalità gli stessi risultati possono avere origini diverse perché ciò che è determinante è la natura dell’organizzazione. Secondo von Bertalanffy:
    "Il principio di equifinalità caratterizza lo stato stazionario dei sistemi aperti; ciò, contrariamente a quanto si verifica nei sistemi chiusi dove sono le condizioni iniziali a determinare lo stato di equilibrio, nei sistemi aperti soltanto i parametri del sistema determinato lo stato che è indipendente (anche temporalmente) dalle condizioni iniziali". Se il comportamento equifinale dei sistemi aperti è basato sulla loro indipendenza dalle condizioni iniziali, allora non soltanto condizioni iniziali diverse possono produrre lo stesso risultato finale ma risultati diversi possono essere prodotti dalle stesse “cause”. E’ un corollario che poggia anch’esso sulla premessa che i parametri del sistema prevalgono sulle condizioni iniziali.
    Il comportamento tradizionalmente classificato come “schizofrenico” non venga più reificato ma piuttosto studiato soltanto nel contesto interpersonale in cui si attua –la famiglia, l’istituzione- dove risulta chiaro che questo comportamento non è semplicemente né il risultato né la causa delle condizioni ambientali, di solito strane, ma la parte complessamente integrata di un sistema patologico in corso.
    Infine, una delle caratteristiche più significative dei sistemi aperti è il comportamento equifinale, che contrasta in modo particolare con il modello del sistema chiuso. Lo stato finale del sistema chiuso è completamente determinato dalle circostanze iniziali per cui possiamo sostenere che esse sono la migliore “spiegazione” di quel sistema. Ma, nei sistemi aperti, le caratteristiche organizzative del sistema possono operare in modo da ottenere –ed è il caso limite- anche l’indipendenza totale dalle condizioni iniziali: il sistema è in tal caso la propria migliore spiegazione e lo studio della sua organizzazione attuale la metodologia appropriata.


    • Sistemi interattivi in corso
    I sistemi caratterizzati dalla stabilità sono quelli codiddetti con “stato stazionario”. Secondo A. D. Hall e R. E. Fagen, "un sistema è stabile rispetto a certe sue variabili se tali variabili tendono a restare entro i limiti definiti".

    Relazioni in corso
    E’ quasi inevitabile che un simile livello di analisi concentri l’attenzione sulle relazioni in corso in gruppi-vitali-con-storie, cioè su quelle che sono
    a.) importanti per entrambe le parti
    b.) di lunga durata.
    In una visione globale non si può ignorare il perché dell’energia e dello scopo (pulsione e bisogni, in termini psicologici), ma non si può neppure ignorare la natura dell’operazione, il come.

    Limitazione
    Esistono dei fattori identificabili, intrinseci al processo di comunicazione che servono a legare e a perpetuare una relazione.
    In via sperimentale questi fattori si possono far rientrare nella nozione di effetto limitante della comunicazione, tenendo presente che in una sequenza di comunicazione, ogni scambio di messaggi restringe il numero delle possibili mosse successive. Il contesto può essere più o meno limitante, ma in qualche misura determina sempre le situazioni contingenti. Definire una relazione come simmetrica o complementare oppure imporre una punteggiatura particolare sono atti che in linea di massima limitano la persona che ci sta di fronte. Vale a dire, non è soltanto il trasmettitore ma anche la relazione (che include il ricevitore) a risentire di questo modo di considerare la comunicazione.

    Regole di relazione
    In ogni comunicazione i partecipanti si danno a vicenda delle definizioni della loro relazione, o per dirla con più precisione, ciascuno cerca di determinare la natura della relazione. Analogamente, ciascuno risponde con quella che è la sua definizione della relazione, la quale può confermare, rifiutare o modificare la definizione che ha dato l’altro. E’ un processo che garantisce la massima attenzione, poiché in una relazione in corso non si può certo lasciarlo irrisolto o fluttuante. Se il processo non si stabilizzasse, le grandi variazioni che si verificherebbero e l’impaccio che ne conseguirebbe, per non dire che i partecipanti non sarebbero in grado di definire di nuovo la relazione ad ogni scambio, porterebbero al runaway e alla dissoluzione della relazione. Le famiglie patologiche, sono l’esempio più evidente di questa necessità.
    D. D. Jackson ha dato il nome di regola della relazione allo stabilizzarsi delle definizioni della relazione stessa. Si nota la tendenza a circoscrivere al massimo entro una configurazione ridondante i comportamenti possibili di qualunque particolare dimensione, il che ha spinto ulteriormente lo studioso a caratterizzare le famiglie come sistemi governati da regole. E’ evidente che questo non vuol dire che leggi a priori governano il comportamento della famiglia.


    Famiglia in quanto sistema
    La teoria delle regole di famiglia non è certo in contrasto con la definizione di sistema secondo cui un sistema è stabile rispetto a certe sue variabili se tali variabili tendono a restare entro limiti definiti.
    D. D. Jackson ha proposto un modello simile per l’interazione della famiglia quando ha elaborato il concetto di omeostasi familiare. Osservò che le famiglie di pazienti psichiatrici manifestavano ripercussioni violente (ad esempio depressione, attacchi psicosomatici...) quando il paziente migliorava, per cui postulò che tali comportamenti e forse anche la malattia del paziente erano “meccanismi omeostatici” che operavano per restituire al sistema disturbato il suo precario equilibrio.

    Totalità
    Il comportamento di ogni individuo all’interno della famiglia è in rapporto con il comportamento di tutti gli altri membri. Quando il membro della famiglia identificato come paziente ha un miglioramento o un peggioramento, di solito questi suoi cambiamenti hanno un effetto sugli altri membri della famiglia.

    Non-sommatività
    L’analisi di una famiglia non è la somma delle analisi dei suoi membri individuali. Molte “qualità individuali” dei membri, soprattutto il comportamento sintomatico, sono in realtà proprie del sistema.
    Secondo W. F. Fry i sintomi di un dei partner sembrano proteggere il coniuge e a sostegno di questa tesi fa notare che l’inizio dei sintomi è tipicamente in correlazione con un cambiamento nella situazione di vita del coniuge, un cambiamento che potrebbe essere una fonte di ansia per il coniuge. Il modello interattivo e il problema caratteristico di queste coppie lo studioso lo definisce “controllo duale”.

    Retroazioni e omeostasi
    Il sistema familiare reagisce ai dati in ingresso (azioni dei membri della famiglia o circostanze ambientali) e li modifica. Si deve considerare la natura del sistema e dei suoi meccanismi di retroazione come pure la natura dei dati in ingresso (equifinalità).
    Il termine omeostasi equivale ormai a stabilità o a equilibrio, non soltanto quando lo si applica alla famiglia ma anche in altri campi. Ma esistono due definizioni di omeostasi:
    1. in quanto fine, o stato, specificamente il fatto che esiste una certa costanza di fronte al cambiamento (esterno);
    2. in quanto mezzo: i meccanismi di retroazione negativa che agiscono per minimizzare il cambiamento.
    Attualmente è più chiaro far riferimento allo stato stazionario o alla stabilità di un sistema, che in genere è mantenuta da meccanismi di retroazione negativa.
    A caratterizzare tutte le famiglie che rimangono unite deve esserci qualche grado di retroazione negativa che consente loro di resistere alle tensioni imposte dall’ambiente e dai singoli membri. Le famiglie disturbate sono particolarmente refrattarie al cambiamento e spesso dimostrano una notevole capacità di mantenere lo status quo mediante una retroazione prevalentemente negativa.
    Ma nelle famiglie esiste anche un processo di apprendimento e di crescita, ed è proprio qui che un modello di pura omeostasi compie gli errori maggiori, perché questi effetti sono più vicini alla retroazione positiva. 

    Calibrazione e funzioni a gradino
    L’analogia classica col termostato della caldaia per il riscaldamento illustrerà i termini di “calibrazione” e “funzione a gradino”. Il termostato viene regolato, o calibrato, per una certa temperatura della stanza, le fluttuazioni al di sotto di tale temperatura attiveranno la caldaia finché la deviazione non viene corretta (retroazione negativa) e la temperatura della stanza non è di nuovo entro l’ambito della calibrazione. Si consideri però che cosa accade quando si cambia la messa a punto del termostato – cioè quando viene regolato per una temperatura più alta o più bassa-; è chiaro che il comportamento del sistema nel suo insieme è diverso anche se il meccanismo di retroazione negativa resta esattamente lo stesso. Questo cambiare la calibrazione, così come il cambiare la messa a punto del termostato o le marce di un’automobile sono “funzioni a gradino”.
    Occorre rilevare che una funzione simile ha un effetto stabilizzatore. Inoltre, le funzioni a gradino consentono di ottenere effetti che sono maggiormente adattativi. Per il circuito di retroazione conducente-acceleratore-velocità della macchina esistono precisi limiti per ciascuna marcia, il che rende necessaria una ricalibrazione (cambio di marcia) per accrescere la velocità o per salire una collina. Sembra che anche nelle famiglie le funzioni a gradino abbiano un effetto stabilizzatore: la psicosi è un brusco cambiamento che ricalibra il sistema e può persino essere adattivo. Cambiamenti interni che praticamente sono inevitabili (l’età e la maturazione sia dei genitori che dei figli) possono cambiare la messa a punto di un sistema, sia gradatamente dall’interno sia drasticamente dall’esterno quando l’ambiente sociale incide su questi cambiamenti. E alla fine può portare a una nuova messa a punto del sistema (funzione a gradino).