martedì 6 dicembre 2011

Vite Passate (la Luna) - XVIII Major


Le mani dell'esistenza assumono la forma dei genitali femminili, l'apertura della madre cosmica, rivelando all'interno una miriade di immagini, volti di altre epoche. Potrebbe essere divertente fantasticare su vite passate famose, ma è solo una distrazione. Ciò che conta veramente è vedere e comprendere gli schemi karmici delle nostre vite, e il loro aver radici in un ciclo ripetitivo e senza fine che ci intrappola in un comportamento inconscio. Le due lucertole arcobaleno poste lateralmente rappresentano ciò che si conosce e ciò che non si conosce: sono i custodi dell'inconscio, e si accertano che noi si sia pronti per una visione, altrimenti sconvolgente. Un'intuizione dell'eternità della nostra esistenza è un dono, e comprendere la funzione del karma nelle nostre vite non è qualcosa che si possa cogliere in base a uno sforzo di volontà. Questo è un invito al risveglio: gli eventi della tua vita cercano di mostrarti uno schema di comportamento antico come il viaggio della tua anima.

Il bambino può diventare consapevole solo se nella sua vita precedente ha meditato a sufficienza, se ha creato sufficiente energia meditativa per lottare contro l'oscurità che la morte porta con sé. Ci si perde semplicemente in un oblio, poi d'acchito ci si trova in un nuovo ventre e si dimentica completamente il vecchio corpo. Esiste uno stacco: questa oscurità, questa incoscienza crea la discontinuità. L'Oriente ha operato strenuamente per penetrare queste barriere - e diecimila anni di lavoro non sono stati vani. Chiunque può penetrare la vita o le vite passate. Ma per farlo dovrai scendere in profondità nella tua meditazione, per due ragioni: se non scendi in profondità, non puoi scoprire la soglia su un'altra vita; in secondo luogo, devi essere in profonda meditazione perché, se scopri la soglia di un'altra vita, la tua mente verrà inondata da una marea di eventi. E' abbastanza arduo persino sostenere una sola vita...

XVII Tao




lunedì 5 dicembre 2011

gioco e fantasia del Tao - 3


3. Il primo chiaro passo nella formulazione dell'ipotesi che guida questa ricerca lo feci nel gennaio del 1952, quando mi recai allo Zoo Fleischhacker di San Francisco per ricercare criteri di comportamento capaci di indicare se un  dato organismo è o no in grado di riconoscere che i segni emessi da lui stesso e da altri membri della sua specie sono segnali. In teoria, mi ero fatto un'idea di come potessero essere  tali criteri, e avevo anche in mente che il presentarsi di segni (o segnali) metacomunicativi nel flusso dell'interazione tra gli animali potesse indicare che gli animali sono almeno in parte consapevoli (consciamente o inconsciamente) che i segni con cui essi metacomunicano sono segnali.
Ovviamente sapevo che non avevo probabilità di trovare messaggi enunciativi tra mammiferi diversi dall'uomo, ma ancora non sapevo che i dati che avrei ricavato dagli animali mi avrebbero costretto a una revisione pressoché totale  del mio pensiero. Quello in cui mi imbattei allo zoo è un fenomeno ben noto a tutti: vidi due giovani scimmie che giocavano, cioè erano impegnate in una sequenza interattiva, le cui azioni unitarie, o segnali, erano simili, ma non identiche, a quelle del combattimento. Era evidente, anche all'osservatore umano, che la sequenza nel suo complesso non era un combattimento, ed era evidente all'osservatore umano che, per le scimmie che vi partecipavano, questo era "non combattimento".
Ora questo fenomeno, il gioco, può presentarsi solo se gli organismi partecipanti sono capaci in qualche misura di metacomunicare, cioè di scambiarsi segnali che portino il messaggio: "Questo è un gioco ".
Konrad Lorenz
(A Theory of Play and Fantasy, 1954) - 2

giovedì 1 dicembre 2011

1Q84 TAO


 Nel taxi la radio trasmetteva un programma di musica classica in FM. Il brano era la Sinfonietta di Janáček. Non esattamente la musica più adatta da sentire in un taxi bloccato nel traffico. E del resto nemmeno l’autista sembrava ascoltarla con troppa attenzione. L’uomo, di mezza età, era impegnato a guardare in silenzio la fila interminabile di auto che aveva davanti, come un pescatore provetto che, ritto a prua, scruta un minaccioso gorgo di correnti. Aomame, sprofondata nel sedile posteriore, gli occhi leggermente socchiusi, ascoltava la musica.
Quante persone ci saranno al mondo che, sentendo l’attacco della Sinfonietta di Janáček, possono dire con sicurezza che si tratta proprio della Sinfonietta di Janáček? La risposta potrebbe variare tra “pochissimi” e “quasi nessuno”. Eppure, per qualche ragione, Aomame era in grado di riconoscerla.


NON FATEVI INGANNARE DALLE APPARENZE

E’ l’Aprile del 1984 a Tokyo.
Aomame (“piselli verdi” in giapponese) è su un taxi bloccato nel traffico sulla tangenziale mentre si reca ad un appuntamento per una missione: uccidere un violentatore sadico con un tecnica che simula la morte naturale, trafiggendolo con un ago acuminato in un punto preciso della nuca.
Dallo stereo emergono le note del primo movimento di un brano classico e Aomame, che non conosce nulla di musica classica, si chiede come possa sapere che quel brano è la Sinfonietta, che il suo autore è Janácek, che è boemo e che è stata composta nel 1926.
L’autista le fà presente che è impossibile che giunga in tempo al suo appuntamento e che, comunque, è impossibile uscire dalla tangenziale bloccata. Poi, quasi casualmente, dice che in effetti, volendo, una soluzione ci sarebbe, anche se non proprio usuale. Poco più avanti c’è una piazzola, e da questa una scala di emergenza conduce alla strada statale sottostante da dove si può raggiungere facilmente la metropolitana.
Aomame riflette e quando inizia l’ultimo movimento della Sinfonietta prende una decisione. Mentre paga e stà per scendere l’autista le chiede se vuole la ricevuta, le raccomanda di fare attenzione e poi dice:

E anche, la prego di ricordare: le cose non sono come sembrano

Aomame gli chiede che cosa significhi e l’autista, scegliendo attentamente le parole, risponde che quello che stà per fare è piuttosto inusuale. La gente normalmente non scende le scale di emergenza della tangenziale in pieno giorno, specialmente se sono donne. E quando qualcuno fà qualcosa del genere, dopo il paesaggio quotidiano delle cose può essere leggermente diverso. Le cose possono sembrare diverse da prima. Ma non ci si deve far ingannare dall’apparenza: la realtà è una sola.
L’uomo ripete lentamente le parole, come se sottolineasse un passaggio importante in un libro:

C’è sempre, come ho detto, una sola realtà

Aomame è colpita da questo strano commento e risponde che certo, la realtà è una sola.
Percorrendo il bordo Aomame raggiunge la piazzola, scavalca una bassa recinzione e scende dalla scala, sotto lo sguardo delle molte persone nelle vetture ferme.
Facendo così, gradualmente, uscirà dal 1984 per entrare in








Live in Montreux,1997

"Orwell scrisse il suo romanzo 1984 pensando al futuro, io con il mio libro voglio fare il contrario, guardare il passato però senza smettere di vedere il futuro. È la mia operà più ambiziosa."

Murakami Haruki
Premio Nobel per la Letteratura 201Q


la cura del Tao paradossale

M.C. Escher, Magic Mirror, 1946, Lithograph
Dopo aver descritto le caratteristiche della comunicazione paradossale la Scuola di  Palo Alto di Watzlawick, per il suo orientamento terapeutico, ha iniziato a descrivere diverse interazioni e metodi, divenuti dei classici e ulteriormente sviluppati da diversi gruppi di ricerca, che possono essere utilizzati con efficacia nelle situazioni dove i giochi paradossali di un gruppo producono sintomi e patologie.

Illusione di alternative

In “The Wife of Bath’s Tale” G. Chaucer narra la storia di un cavaliere di Re Artù che “a spron battuto cavalcando un giorno verso casa di ritorno dalla caccia col falcone” s’imbatte per strada in una fanciulla a cui usa violenza. La regina dice al cavaliere che gli concederà la vita se riuscirà a rispondere alla domanda: “Che cosa desiderano di più le donne?”. il cavaliere, che ha come unica alternativa una sentenza di morte, s’impegna di trovare la risposta e di ritornare al castello dopo un anno e un giorno (il tempo che la regina gli ha dato). Come si può immaginare, l’anno passa, arriva l’ultimo giorno, e il cavaliere è sulla strada del ritorno al castello senza aver trovato la risposta. Questa volta s’imbatte in una vecchia che, dopo che viene a conoscenza dei fatti, gli dice di sapere la risposta e di essere pronta a svelargliela se egli giura che “qualunque cosa io poi vi chieda, la farete se potrete farla” . Posto di nuovo di fronte ad una scelta tra due alternative, naturalmente il cavaliere accetta l’alternativa offerta dalla strega che gli rivela il segreto (“Più di tutto è il dominio che desiderano le donne, sopra i loro mariti e nelle cose d’amore”). La risposta soddisfa poi pienamente le dame di corte e la strega chiede al cavaliere di sposarla. Giunge la notte del matrimonio e il cavaliere giace al fianco della strega disperato e incapace di sopraffare la repulsione per la sua bruttezza. Alla fine la strega gli offre ancora due alternative tra cui scegliere: o lui l’accetta orrenda com’è, e lei per tutta la vita sarà una moglie sottomessa ed esemplare, oppure si trasformerà in una fanciulla giovanissima e bellissima, ma non gli sarà mai fedele. A lungo il cavaliere pondera le due alternative e alla fine non sceglie nessuna delle due, ma rifiuta la scelta stessa. A questo punto la strega diventa una fanciulla bellissima che sarà la più fedele e obbediente delle mogli.
La donna esercita su di lui potere finché egli non si sente più costretto a scegliere e ad essere trascinato in una ulteriore situazione difficile; infatti alla fine contesta la stessa necessità di scegliere. Finché questo tipo di donna è capace di “legare doppio” il maschio con l’illusione di alternative che non finiscono mai neppure lei può essere libera e resta presa nell’illusione di alternative che comportano bruttezza e promiscuità come uniche scelte.

J. H. Weakland e D. D. Jackson hanno usato per primi il termine “illusione di alternative” in uno scritto sulle circostanze interpersonali di un caso di schizofrenia. Notarono che, nel tentativo di fare la scelta giusta tra due alternative, i pazienti schizofrenici incontrano un dilemma tipico: non possono –per la natura della situazione di comunicazione- prendere la decisione giusta, perché entrambe le alternative sono parte integrante di un doppio legame e quindi il paziente “è dannato se la prende ed è dannato se non la prende”. Il blocco di ogni via d’uscita dalla situazione di doppio legame, e l’impossibilità che ne deriva di guardarla dall’esterno, sono elementi fondamentali del doppio legame stesso. Le comunicazioni paradossali legano quasi sempre tutti coloro che vi sono coinvolti: la strega è presa quanto il cavaliere, il marito quanto la moglie. Dall’interno non si può provocare nessun cambiamento; può verificarsi un cambiamento soltanto uscendo fuori dal modello.

“Gioco senza fine”
Due persone decidono di fare un gioco che consiste nel sostituire la negazione con l’affermazione, e viceversa, in ogni frase che si comunicano. I giocatori non possono ritornare con facilità al loro primo, “normale”, modulo di comunicazione, una volta che il gioco sia avviato. Per arrestare il gioco è necessario uscir fuori dal gioco e comunicare su di esso. Un messaggio simile dovrebbe essere chiaramente costruito come un metamessaggio, ma qualunque qualificatore si adotti sarebbe esso stesso soggetto alla regola d’inversione del significato, e quindi inutile. Il messaggio: “Smettiamo di giocare” è indicibile perché a.) ha un significato sia al livello oggetto (in quanto parte del gioco), b.) i due significati sono contraddittori e c.) la natura peculiare del gioco non fornisce una procedura tale da mettere in grado i giocatori di decidere su un significato o sull’altro. L’indecidibilità rende impossibile arrestare il gioco una volta avviato. Etichettiamo situazioni simili giochi senza fine.
Anche se un giocatore emettesse il messaggio: “Continuiamo a giocare” e –per la regola dell’inversione- l’altro capisse che significa di smettere, egli si troverebbe di fronte ad un messaggio indecidibile, a condizione che il suo ragionamento su di esso resti perfettamente logico, perché le regole del gioco non tengono nel debito conto i metamessaggi e un messaggio che proponga la fine del gioco è necessariamente un metamessaggio.
Ciò significa che in un sistema simile nessun cambiamento può essere provocato dall’interno.

Per evitare il dilemma ci sono tre possibilità:
1. i giocatori, prevedendo la necessità di comunicare sul gioco una volta che fosse cominciato, avrebbero potuto accordasi di giocarlo in una lingua ma di metacomunicare in un’altra. Per questo gioco sarebbe una procedura di decisione di grande efficacia, ma sarebbe inapplicabile nella comunicazione umana perché non esiste un metalinguaggio che venga usato soltanto per le comunicazioni sulla comunicazione. Infatti, il comportamento e, più precisamente, il linguaggio naturale sono usati per comunicazioni sia al livello-oggetto che a livello di metalinguaggio;
2. i giocatori avrebbero potuto fissare in anticipo di comune accordo un limite di tempo, superato il quale sarebbero tornati al loro modulo di comunicazione normale. Vale la pena di notare che questa situazione, inattuabile nella comunicazione umana reale, implica il ricorso a un fattore esterno –il tempo- che non rientra nel gioco;
3. i giocatori potrebbero trasferire il loro dilemma su una terza persona con la quale entrambi hanno mantenuto il loro modulo di comunicazione normale e farle decidere la chiusura del gioco.

Un’altro esempio può essere la costituzione di un paese immaginario che garantisce il diritto di un dibattito parlamentare illimitato. Si scopre subito che questa norma non è pratica, perché basta che i membri di un partito comincino a fare discorsi interminabili per impedire che si prenda qualunque decisione. E’ chiaro che è necessario un emendamento della costituzione, ma l’adozione dell’emendamento stesso è soggetta allo stesso diritto di dibattito illimitato che si progetta di emendare per cui l’emendamento può essere rinviato a tempo indeterminato. L’organizzazione dello stato di questo paese è di conseguenza paralizzata e incapace di produrre un cambiamento delle proprie norme, perché è presa in un gioco senza fine.
In questo caso non esiste ovviamente un mediatore che potrebbe restare fuori delle regole del gioco che la costituzione prevede. L’unico cambiamento immaginabile che si possa operare è soltanto un cambiamento violento, una rivoluzione che dia a un gruppo il potere sugli altri partiti e imponga una nuova costituzione. Gli equivalenti di un simile cambiamento violento nel settore delle relazioni tra individui presi in un gioco senza fine possono essere la separazione, il suicidio o l’omicidio.

La terza possibilità, quella di un intervento esterno, è il paradigma dell’intervento psicoterapeutico. In altre parole, il terapeuta in quanto outsider è in grado di provocare quello che il sistema stesso non è in grado di produrre: un cambiamento delle proprie regole.

Prescrivere il sintomo

Per sua natura il sintomo è qualcosa di involontario e quindi di autonomo. Ma questo non è che un altro modo per dire che un sintomo è una forma di comportamento spontaneo, così spontaneo, in realtà, che anche lo stesso paziente lo esperisce come qualcosa di incontrollabile. Ed è questa oscillazione tra spontaneità e coercizione che rende paradossale il sintomo, sia nell’esperienza del paziente che negli effetti sugli altri.
Se un terapeuta insegna al paziente a rappresentare il proprio sintomo, egli gli sta insegnando un comportamento spontaneo e con questa ingiunzione paradossale impone al paziente di cambiare comportamento. Il comportamento sintomatico non è più spontaneo; assoggettandosi all’ingiunzione del terapeuta il paziente è uscito fuori dallo schema del suo sintomatico gioco senza fine, che fino a quel momento non aveva metaregole per cambiare le proprie regole.

La tecnica di prescrivere il sintomo (in quanto tecnica di doppio legame per eliminarlo) sembra che contraddica nettamente quei dogmi della psicoterapia di orientamento psicoanalitico che vietano ogni interferenza diretta con i sintomi. Comunque, negli ultimi anni sono state raccolte molte prove a sostegno della tesi che se si elimina solo il sintomo non ci saranno conseguenze disastrose.
Nella vita reale il fenomeno sempre presente del cambiamento assai di rado è accompagnato da “insight”; il più delle volte si cambia senza sapere il perché. Dal punto di vista della comunicazione, è probabile che le forme più tradizionali di psicoterapia siano molto più attente ai sintomi di quanto non appaia in superficie. Il terapeuta, che trascura di proposito le lagnanze del paziente sul suo sintomo, sta segnalando in modo più o meno evidente, che per il momento la presenza del sintomo non è un fattore negativo e che ciò che conta è individuare cosa c’è “dietro” di esso.

Un cambiamento nel paziente è il più delle volte accompagnato dalla comparsa di un nuovo problema o dalla esacerbazione della condizione di un altro membro della famiglia. Dalla letteratura sulla terapia del comportamento si trae l’impressione che il terapeuta (interessato com’è soltanto al suo paziente singolo) non vede tutte le connessioni reciproche tra questi due fenomeni e, se consultato, consideri isolatamente anche i nuovi problemi.

Il termine “prescrivere il sintomo” è stato introdotto per la prima volta nel lavoro del progetto di Bateson “Terapia della famiglia in schizofrenia”. Questo gruppo di lavoro chiarì esplicitamente la natura paradossale, di doppio legame, di tale tecnica.

Doppi legami terapeutici
Prescrivere il sintomo è soltanto uno dei molti e svariati interventi paradossali che si possono classificare con il termine di doppio legame. Le comunicazioni paradossali possono essere fattori terapeutici.
Sul piano strutturale, un doppio legame terapeutico è l’immagine allo specchio di quello patogeno:
presuppone una relazione intensa (nella fattispecie, la situazione psicoterapeutica) da cui il paziente si aspetta una ragione per sopravvivere;
in questo contesto, viene data un’ingiunzione che è strutturata in modo tale da:
  • rinforzare il comportamento che il paziente si aspetta che sia cambiato;
  • implicare che questo rinforzo sia un veicolo del cambiamento;
  • creare il paradosso perché al paziente si dice di cambiare restando com’è.
Il paziente viene messo in una situazione insostenibile, riguardo alla sua patologia. Se egli accondiscende non può più “non farci niente”; egli può farci qualcosa, e questo rende impossibile la situazione di non poterci fare niente (il che è lo scopo della terapia). Se si oppone all’ingiunzione, può farlo soltanto non comportandosi sintomaticamente (che è lo scopo della terapia). In un doppio legame patogeno il paziente è “dannato se può farci qualcosa ed è dannato se non può farci niente”, in un doppio legame terapeutico è “cambiato se può farci qualcosa ed è cambiato se non può farci niente”;
la situazione terapeutica impedisce al paziente di chiudersi in se stesso o altrimenti di dissolvere il paradosso commentandolo. Perciò anche se l’ingiunzione è assurda da un punto di vista logico, è una realtà pragmatica: il paziente non può non reagire ad essa, ma non può neppure reagire ad essa nel suo modo consueto, sintomatico.

Un doppio legame terapeutico costringe sempre il paziente ad uscir fuori dallo schema stabilito dal suo dilemma.

Esempi di doppi legami terapeutici

ESEMPIO 1
Il paziente paranoide, come già accennato, estende la sua ricerca del significato a fenomeni del tutto marginali e non pertinenti, poiché la percezione corretta, e il commento, del problema centrale -il paradosso-, gli sono stati preclusi. La presenza continua dell’ingiunzione che gli preclude la percezione corretta ha un doppio effetto: gli impedisce di colmare queste lacune con una informazione adeguata e rafforza i suoi sospetti. D. D. Jackson lo definisce “un modo d’insegnare al paziente ad essere più sospettoso” .

ESEMPIO 2
Non soltanto quella psicoanalitica ma in genere quasi tutte le situazioni psicoterapeutiche sono ricche di impliciti doppi legami. A rendersi conto della natura paradossale della psicoanalisi fu uno dei primi collaboratori di S. Freud, H. Sachs, a cui si attribuisce la frase: “Un’analisi termina quando il paziente si rende conto che potrebbe continuare per sempre” ; un’asserzione che in modo assai curioso richiama alla mente la credenza Zen secondo cui l’illuminazione giunge quando l’allievo si rende conto che non c’è nessun segreto, nessuna risposta ultima, e quindi nessuna ragione di continuare a far domande.
Alcuni dei paradossi più rilevanti che il contesto comporta sono i seguenti:
al paziente viene detto: “Sii spontaneo”;
in questa situazione, qualunque cosa faccia, il paziente si trova di fronte ad una risposta paradossale. Se fa notare che non sta migliorando, gli si dice che questo è dovuto alla sua resistenza, ma che è un bene perché gli offre un’occasione migliore di capire il proprio problema. Se dichiara che crede di star migliorando, gli si dice che sta resistendo al trattamento cercando di fuggire prima che il suo vero problema sia stato analizzato;
il paziente è in una situazione che non gli consente di comportarsi da adulto, ma quando non si comporta d’adulto l’analista interpreta il suo comportamento infantile come un residuo dell’infanzia e quindi come un comportamento inappropriato;
da una parte, si dice continuamente al paziente che la sua relazione è volontaria e perciò simmetrica. Tuttavia se il paziente arriva in ritardo, non va ad una seduta o viola in qualche modo qualche regola, risulta evidente che la relazione è coercitiva, complementare, con l’analista nella posizione one-up;
la posizione one-up dell’analista diventa particolarmente chiara ogni volta che ci si richiama al concetto di inconscio. Se il paziente respinge un’interpretazione, l’analista può sempre spiegare di stare indicando qualcosa di cui il paziente per definizione non deve aver consapevolezza perché si tratta di qualche processo inconscio. Se d'altra parte il paziente cerca di appellarsi all’inconscio per giustificare qualcosa, l’analista può respingere tale rivendicazione dicendo che se si trattasse di qualche processo inconscio il paziente non potrebbe farvi riferimento.

ESEMPIO 3
I medici dovrebbero guarire. Da un punto di vista interattivo tale premessa li pone in una posizione assai curiosa: occupano la posizione complementare one-up nella relazione dottore-paziente finché il malato non è guarito. D’altra parte, quando falliscono i loro sforzi le posizioni si rovesciano: la natura della relazione dottore-paziente è allora dominata dalla refrattarietà della condizione del paziente e il medico viene a trovarsi nella posizione one-down. E’ allora probabile che venga “legato doppio” da quei pazienti che per ragioni spesso assai recondite non possono accettare di migliorare o da quelli che trovano che essere one-up su ogni partner (medico compreso) sia più importante del dolore o del disagio che una scelta simile può procurare. In entrambi i casi è come se questi pazienti comunicassero tramite i loro sintomi: “Aiutami, ma io non te lo permetterò”.

ESEMPIO 4
L’imposizione di un doppio legame terapeutico può cominciare spesso anche dalla richiesta telefonica di un appuntamento fatta da un nuovo paziente. Se il paziente non avverte nessuna diminuzione del dolore nel periodo di tempo tra la telefonata e il primo appuntamento, non si è fatto alcun danno, e il paziente apprezzerà l’interesse e la prudenza del terapeuta. Ma se si è sentito meglio, si è superato il primo stadio per l’ulteriore strutturazione del doppio legame terapeutico. Come passo successivo si può spiegare che la psicoterapia non allevia il dolore, ma che il paziente stesso di solito può “spostare il dolore nel tempo” e “condensare la sua intensità”. I pazienti di solito riescono a sentirsi peggio seguendo il suggerimento del terapeuta, e subendo questa esperienza non possono fare a meno di rendersi conto di avere un poco controllato il loro dolore. Naturalmente, il terapeuta non suggerisce mai che dovrebbero cercare di sentirsi meglio.

ESEMPIO 5
Una ragazza che studiava in un college correva il pericolo di essere bocciata perché non riusciva ad alzarsi in tempo per seguire le lezioni delle otto. Il terapeuta allora le disse di mettere la sveglia alle sette. Il mattino seguente, quando la sveglia avesse suonato, si sarebbe trovata di fronte a due alternative: poteva alzarsi, fare la prima colazione e trovarsi in classe alle otto, nel qual cosa non si sarebbe dovuto fare più nulla; oppure, poteva restare a letto come al solito. In questo caso, però, non le avrebbe permesso di alzarsi poco prima delle dieci, come di solito faceva, ma avrebbe dovuto rimettere la sveglia alle undici e continuare a restare a letto (riposo forzato), quella mattina e la mattina seguente, finché non avesse suonato. Tre giorni dopo riprese a seguire le lezioni del mattino.

ESEMPIO 6
Nella psicoterapia congiunta di una famiglia, la figlia disse al terapeuta di non voler più collaborare alla terapia in alcun modo. Il terapeuta per controbattere questa presa di posizione, disse che la sua ansia era comprensibile e che lui voleva che continuasse quanto più possibile col suo atteggiamento disfattista. Con questa semplice ingiunzione la mise in una situazione insostenibile: se lei continuava a sabotare il corso della terapia era chiaro che stava cooperando (e lei era decisa a non farlo), ma se voleva disobbedire all’ingiunzione poteva farlo soltanto assumendo un atteggiamento che non fosse disfattista (e questo avrebbe reso possibile continuare la terapia). Naturalmente, avrebbe potuto smettere di andare alle sedute, ma il terapeuta aveva bloccato questa via di scampo insinuando che in tal caso lei sarebbe stata l’unico argomento di discussione della famiglia, una prospettiva che sapeva che la ragazza non poteva assolutamente affrontare.

ESEMPIO 7
Il coniuge che beve mantiene di solito con l’altro partner un modello di comunicazione piuttosto stereotipato. La principale difficoltà è spesso una discrepanza nella punteggiatura della sequenza di eventi. Il marito, ad esempio, può asserire che la moglie lo domina e che lui si sente un po’ più uomo soltanto dopo qualche bicchierino. La moglie controbatte prontamente che rinuncerebbe volentieri a comandare se il marito mostrasse un maggior senso di responsabilità, ma visto che si ubriaca tutte le sere è costretta ad avere cura di lui. Dietro la facciata di scontento, frustrazioni e accuse, si stanno confermando a vicenda mediante un quid pro quo; il marito dà alla moglie la possibilità di essere sobria, ragionevole e protettiva e la moglie rende possibile a suo marito di essere irresponsabile, infantile e in genere un fallito incompreso.
Uno dei possibili doppi legami terapeutici che si potrebbe imporre ad una coppia simile sarebbe quello di presecrivere ai coniugi di bere insieme, a condizione però che la moglie beva sempre un bicchierino più del marito. L’introduzione di questa nuova regola nella loro interazione praticamente distrugge i vecchi modelli. Primo, il bere ora è un compito e non più qualcosa di cui lui “non può fare a meno”. Secondo, tutti e due devono controllare di continuo il numero dei bicchierini bevuti. Terzo, la moglie, che di solito è una bevitrice assai moderata, raggiunge subito un grado di ubriachezza che richiede che sia lui a prendersi cura di lei. Non si tratta soltanto di un rovesciamento totale dei loro ruoli abituali; questa situazione pone il marito in una posizione insostenibile: se riesce a seguire le istruzioni del terapeuta o deve smettere di bere o deve costringere la moglie a bere di più, con il rischio di renderla ancor più vulnerabile, malata, etc...
Quando la moglie non vuol più bere, se lui ha intenzione di violare la regola (che lei debba essere avanti di un bicchierino) continuando a bere da solo, deve affrontare la situazione non certo familiare di restare senza il suo angelo custode e di assumersi sia la responsabilità del suo comportamento che di quello della moglie.

ESEMPIO 8
Uno coppia ricorre allo psichiatra perché ritiene di litigare troppo. Piuttosto che concentrare l’attenzione sull’analisi dei loro conflitti, il terapeuta dà una nuova definizione dei loro litigi, sostenendo che essi si amano e tanto più litigano tanto più si amano perché sono così importanti l’uno per l’altra da non potersi lasciare in pace e perché lottare come lottano presuppone uno stato emozionale che li coinvolge profondamente. Per quanto questa interpretazione possa sembrare ridicola ai coniugi, proprio perché è così ridicola per loro, si metteranno a dimostrare al terapeuta quanto si sbaglia. Ma è una cosa che non si può far meglio che smettendo di litigare.

ESEMPIO 9
Che l’effetto terapeutico della comunicazione paradossale non sia affatto una scoperta recente lo mostra il seguente racconto Zen che contiene tutti gli elementi di un doppio legame terapeutico.
Una giovane moglie si ammalò e sul punto di morte disse al marito che se avesse avuto un’altra donna, il suo fantasma lo avrebbe perseguitato. Ben presto la donna passò a miglior vita. Per tre mesi il marito rispettò l’ultima volontà della moglie, ma poi conobbe un’altra donna, s’innamorò di lei e si scambiarono promessa di matrimonio. Subito dopo il fidanzamento, un fantasma cominciò ad apparire all’uomo ogni notte, illustrando tutto sulla sue esistenza presente e a biasimarlo per non essere restato fedele. All’uomo fu consigliato di sottoporre il suo problema a un maestro Zen che viveva vicino al villaggio. Egli gli disse di dire al fantasma che erano tante le cose che sapeva (il fantasma) su di lui (l’uomo) perché non poteva nascondergli nulla, e che se avrebbe risposto ad una sua domanda avrebbe rotto il fidanzamento e sarebbe restato vedovo. L’uomo chiese al maestro Zen qual’era la domanda ed egli gli rispose dicendo di prendere una manciata di semi di soia e dire poi al fantasma di indovinare il numero senza sbagli. Se non avesse risposto l’uomo avrebbe capito che era solo un’invenzione della sua fantasia e non l’avrebbe mai più importunato. Quando incontrò il fantasma seguì il consiglio del maestro, ma non ci fu più nessun fantasma a rispondere a questa domanda.

Paradosso nel gioco, nell’humour e nella creatività
La fantasia, il gioco, l’humour, l’amore, il simbolismo, l’esperienza religiosa e soprattutto la creatività, sia nelle arti che nelle scienze sembrano essere sostanzialmente paradossali.
“Nella fase in cui l’humour si sviluppa, ci si trova all’improvviso di fronte a un capovolgimento implicito-esplicito quando viene liberata la battuta finale [...] I capovolgimenti improvvisi come quelli che nell’humour caratterizzano il momento della battuta finale sono dirompenti ed estranei al gioco. Ma solo il capovolgimento può avere l’effetto di costringere coloro che partecipano all’esperienza dell’humour a dare una nuova definizione interna della realtà [...] Anzitutto si riceve la comunicazione esplicita della battuta finale; poi, ad un livello più elevato di astrazione, la battuta finale trasmette una metacomunicazione implicita su se stessa e sulla realtà che viene esemplificata dalla barzelletta [...] questo materiale della battuta finale implicito-ora-esplicito diventa un messaggio di metacomunicazione che riguarda il contenuto della barzelletta in generale [...] Il reale è irreale, l’irreale è reale. La battuta finale fa precipitare il paradosso interno specifico del contenuto della barzelletta e stimola una riverberazione del paradosso che lo schema del gioco ha generato” .
In “The Act of Creation” di A. Koestler, si avanza la proposta che l’humour, la scoperta scientifica e la creazione artistica siano il risultato di un processo mentale a cui si dà il nome di “biassociazione”. La biassociazione viene definita come la “percezione di uno stato o di un’idea [...] in due schemi di riferimento coerenti ma, di solito, incompatibili...”.

Me-Ti: il Tao delle svolte


















Delle svolte

Bertolt Brecht

Il Me-ti - Libro delle svolte è stato composto da Bertolt Brecht prevalentemente tra il 1934 e il 1937 (con qualche correzione successiva), in stile “cinese”, come “libretto di regole di comportamento”. Esso è stato pubblicato per la prima volta da Suhrkamp, a Francoforte nel 1965, ed è stato tradotto in italiano da Cesare Cases per Einaudi, Torino 1979. Il volume è ancora incluso nel catalogo italiano di Einaudi, anche se non di immediato reperimento.

Il Libro delle svolte è stato tradotto in tedesco utilizzando la traduzione dal cinese in inglese di Charles Stephen. Esso non rientra nei libri classici dell’antichità cinese, anche se il suo nucleo essenziale risale a Mo Di. La dottrina di Mo Di, dopo essere stata quasi completamente messa in ombra dai confuciani, è riemersa in primo piano nel secolo scorso, poiché alcuni suoi elementi ricordavano certe correnti filosofiche occidentali e sembrano quasi moderni. I capitoli Della musica e Del comportamento sono scritti autentici di Mo Di. Altri capitoli non sono di Mo Di, ma sono anch’essi antichi. Altri ancora sono di data più recente, tuttavia anche nella redazione originale sono scritti nello stile degli antichi. Da un punto di vista rigorosamente scientifico opere come il Libro delle svolte sono piuttosto sospette. Ma il lettore che si attenga più al contenuto che al suggello dell’autenticità leggerà il libro con profitto ad onta dei suoi aspetti eclettici. Proprio l’inserimento di ragionamenti moderni e la scelta, in parte davvero divertente, di confronti tratti dalla storia moderna per esemplificare le idee fondamentali di un antico filosofo cinese, rallegrerà più di un lettore.

Elenco dei nomi più importanti
[L’elenco compilato da Brecht è stato integrato dai curatori tedeschi]

Engels: il Maestro Eh-fu, Fu-en, En-fu.
Lenin: Mi-en-leh.
Marx: Ka-meh.
Hegel: il Maestro Hu-jeh, He-leh.
Rosa Luxemburg: Sa.
Stalin: Ni-en.
Korsch: Ko, Ka-osh.
Trotzki: To-tsi.
Brecht: Kin, Kin-jeh, Ken-jeh, Kien-leh.
Russia: Tsen.
Unione Sovietica: Su.
Germania: Ga, Ge-el, Ger.
Hitler: Hi-jeh, Hu-ih, Hui-jeh, Ti-hi.
Plechanov: Le-peh.
Anatole France: Fan-tse.
Feuchtwanger: Fe-hu-wang.
Emil Ludwig: Lu.


Delle svolte

Mi-en-leh insegnava: L’instaurazione della democrazia può condurre all’instaurazione della dittatura. L’instaurazione della dittatura può condurre alla democrazia.

Del principio di Ka-meh sulla dipendenza della coscienza

Me-ti insegnava: Il maestro Ka-meh dice che la coscienza dipende dal modo in cui gli uomini producono ciò che è necessario alla vita. Egli contesta che gli uomini possa­no emanciparsi dal punto di vista economico nelle loro teste più che nell’economia stessa. Questo in un primo tempo sembra deprimente. Ma la semplice considerazione che in questo rapporto di dipendenza furono purtuttavia create tutte le grandi opere, e che queste non diverrebbero più piccole ammettendo tale dipendenza, rimette tutto a posto. Del resto questo principio è destinato a perdere un giorno non già la sua fama, ma la sua importanza. Esso fu formulato affinché contro le idee dominanti del tempo si ricordasse che erano le idee dei dominanti. E questo limitava il loro valore. Quando non ci saranno più dominanti e quindi la dipendenza dall’economia non sarà più sentita come tanto opprimente dalla maggior parte degli uomini su questa terra, allora anche il principio di Ka-meh non deprimerà più nessuno.

Del fiume delle cose

Ed io vidi che nulla era del tutto morto, nemmeno ciò che è estinto. Le mute pietre respirano. Si trasformano e provocano trasfor­mazioni. Perfino la luna, che si dice morta, si muove. Getta luce, sia pure non sua, sulla terra, determina la traiettoria dei corpi che cadono e cagiona il flusso e il riflusso dell’acqua marina. E se spaventasse un solo uomo che la guardi, anzi se un solo uomo la guardas­se, già non sarebbe morta, ma vivrebbe. Eppure io vidi che in certo modo essa è morta; infatti, una volta messo insieme tutto ciò per cui vive, questo è troppo poco o non c’entra, quindi in complesso è da chiamarsi morta. Poiché se non facessimo così, se non la chiamassimo morta, noi perderemmo un termine, per l’appunto la parola morto, e la possibilità di denominare qualcosa che pur vediamo. Dato che però, come abbiamo parimenti visto, essa non è nemmeno morta, noi dobbiamo pensare di essa ambe le cose e trattarla come alcunché di morto non-morto, ma più morto che non-morto, come alcunché di estinto per qualche rispetto, e per questo rispetto irrevocabilmente estinto, ma non per ogni rispetto.

L’indagine dei limiti della conoscenza

Me-ti si espresse contro una troppo zelante indagine dei limiti della conoscenza. Egli disse: E molto utile constatare i limiti della conoscenza nei vari campi, limiti che si sentono come un impaccio, onde allargarli. E bene sapere fino a che limite di grandezza e di piccolezza si può vedere con l’occhio e inventare strumenti che migliorino la visione. Ma i filosofi, quando parlano della conoscenza, vanno insieme più lontano e meno lontano. Essi non si interessano del più o del meno, ma del tutto o del nulla. Il maestro Eh-fu ha detto che si può tranquillamente parlare di una conoscenza possibile quando si possono maneggiare le cose. Se si può piantar frumento e predire eclissi, allora è anche lecito parlare della possibilità che la natura sia conoscibile. Coloro che vogliono saperne di più vogliono in fondo saperne di meno, perché non vogliono sapere quanto si è appena detto. Essi vogliono con le sole parole, senza l’ausilio di esperimenti, provocare una decisione che ha delle conseguenze per il comportamento pratico. In sostanza essi tentano soltanto di allineare una serie di parole in modo che con una specie di necessità logica, cioè in modo tale che le parole adoperate non cambino il loro senso e si continuino ad applicare certe regole di successione, si possa affermare che tutto è conoscibile o che nulla è conoscibile. Per lo più essi mostrano un evidente interesse a che la risposta sia nulla (nel qual caso, del resto, anche tutta questa operazione non significherebbe nulla), e quando hanno ordinato le parole in modo che restino cose non conoscibili, non è che allora neghino a queste ogni ulteriore interesse per gli uomini, ma anzi riconoscono loro un particolare influsso sull’agire degli uomini. In tutto ciò essi assumono un’aria estremamente scettica, di gente che non si lascia imbrogliare e non si fa illusioni, ma solo col risultato che per loro c’è poi un dio o uno spirito in cui si può credere ciecamente. Con tutti i loro dubbi e la loro scientificità essi confutano, imperlandosi di sudore, l’obiezione dei veri scettici che non c’è un influsso divino proveniente dall’esterno, poiché non è conoscibile. Essi dicono: se l’uomo non può conoscere, come si può pretendere dagli dèi che siano conoscibili? Essi affermano di non voler paralizzare con queste riflessioni l’agire degli uomi­ni; pretendono che gli uomini agiscano anche se non possono veramente conoscere e ricordano sprezzantemente che essi di fatto agiscono continuamente. Per questo agire, dunque per ogni agire umano, la conoscenza - essi dicono arricciando il naso -, questa conoscenza orba e inadeguata è pienamente sufficiente. Per che cosa poi non sia sufficiente, questo naturalmente non ce lo dicono.

[Definizione del pensiero]

Me-ti diceva: Il pensiero è qualcosa che viene dopo delle difficoltà e precede l’azione.

Il Grande Metodo

Il detto del maestro Hu-jeh che uno non è uguale a uno, non soltanto uguale a uno, non sempre uguale a uno, è un punto di partenza del Grande Metodo. Vuol dire che accade di usare troppo a lungo questa formula, o una costruita in modo analogo, cioè si può aver ragione di usarla in un tempo e in una situazione determinata, ma dopo qualche tempo, in una situazione cambiata, si può aver torto. Se si analizza questa affermazione bisogna rassegnarsi ad affrontare ragionamenti molto complicati, senza però mai dimenticare che in fondo quel che vuol dire è molto semplice. Il pensiero ha difficoltà per esempio a fissare il concetto di bocciolo, perché la cosa così designata è in preda a un impetuoso sviluppo, e mostra, scappando sotto al pensiero, un grande impulso a non essere un bocciolo, bensì un fiore. Così, per chi pensa, il concetto di bocciolo è già il concetto di qualcosa che aspira a non essere quel che è. Eppure si tratta di cose semplici e non ci sono difficoltà in questa designazione e nel modo di applicarla. Molti all’inizio non capiscono il Grande Metodo perché dei due termini, osservatore e cosa osservata, ne prendono sul serio soltanto uno, cioè la cosa osservata, e attribuiscono al nostro pensiero una imprecisione e un’inconsistenza che mancano alla cosa pensata. Ma questa imprecisione e inconsistenza non mancano alla cosa pensata, e così il nostro pensiero non è manchevole, quando è inconsistente e impreciso, bensì esatto, in quanto ha speranza di comandare alla natura solo obbedendole. Se diciamo “La scienza è la scienza” questa formula è valida, a quanto sembra, perché la stessa parola è usata due volte. Ma la stessa parola designa cose diverse, e non solo in tempi diversi. Nella nostra epoca i fisici contestano che gli storici abbiano una scienza, solo i loro metodi sembrano loro scientifici, e il maestro Eh-fu diede loro ragione, e purtuttavia contestò la scientificità dei fisici, perché questi capivano troppo poco della nuova scienza storica. Molto facilmente e con grande vantaggio ci si può rappresentare la scienza come lo sforzo di scoprire e provare la mancanza di scientificità di asserzioni e di metodi scientifici. La grande rivoluzione nel Su mostrò i vantaggi che può arrecare il ripetere troppo a lungo formule come “il contadino è il contadino”. Mi-en-leh scoprì che nel Su come dappertutto il fenomeno “il contadino” si presentava in forme così differenti da comportarsi di fronte a certi fatti in modo del tutto opposto. Egli stabilì che quella differenza, che implicava il differente comportamento, era una differenza di proprietà, e da ciò trasse enormi vantaggi per la grande rivoluzione. Ma questo lo poté fare solo perché contemporaneamente osservò che, ad onta della differenza da lui riscontrata, c’era anche, primariamente, un comportamento identico in tutti i contadini: contrariamente agli operai, che volevano abolire la proprietà individuale, i contadini volevano conservarla. Anzi i contadini poveri volevano introdurla per la prima volta. Qui dunque, ed entro questi limiti, era valida la formula “il contadino è il contadino”. Era valida, e doveva essere posta alla base dell’azione nello stesso torno di tempo in cui il contrasto tra i contadini era tanto grande che gli uni non potevano restare più contadini se lo diventavano gli altri. Per parecchio tempo gli operai sotto la guida di Mi-en-leh e di Nien lottarono affinché la formula “il contadino è il contadino” si affermasse come valida, trasformando i contadini ricchi e i contadini poveri in contadini con proprietà uguali. E poi si formò in seno alla stessa Lega degli operai, sempre nel giro della stessa generazione, un’opposizione che in base alla formula “il contadino è il contadino” predisse (o constatò) contese tra operai e contadini che potevano terminare solo con la vittoria o dei contadini o degli operai, e chiese che gli operai prendessero delle misure in vista di queste contese. La Lega si trovò in difficoltà per tali dispute, ma a quel tempo la formula “il contadino è il contadino” ricominciò a mostrare la propria labilità, perché i contadini si trasformarono in operai; sicché la formula “il contadino è l’operaio” serviva meglio in molti casi. L’opposizione restò indietro ai tempi e fu sconfitta. Ma coloro che in questo nuovo operaio, che era sorto in seguito all’eliminazione della proprietà terriera individuale, non sapevano più riconoscere l’elemento contadinesco, e consideravano quindi del tutto superata la formula “il contadino è il contadino”, fecero grandi errori. Così quella formula continuava ad avere, in forma cambiata, la sua validità.

[Idee pericolose]

 
Quando il filosofo cinese Me-ti tornò da un’udienza concessagli da un altissimo funzionario, riferì ai suoi scolari che l’alto personaggio aveva parlato con lui soprattutto delle cosiddette idee pericolose. Quel signore, riferì Me-ti, si è espresso in modo impreciso, anche se molto energicamente, ma non sarei sorpreso se considerasse pericolose idee del genere di “Chi lavora deve mangiare”, oppure “Se si vuole costruire un ponte, ci vogliono pontieri”, oppure “La pioggia cade dall’alto in basso”. Credetemi, ho avuto l’impressione che deve essere molto pericoloso trovarsi nella pelle di quel signore.

Vivere secondo il Grande Metodo

 
Me-ti diceva: È utile non soltanto pensare mediante il Grande Metodo ma anche vivere mediante il Grande Metodo. Non essere d’accordo con se stessi, mettersi in crisi, cambiare i piccoli mutamenti in grandi mutamenti, tutto ciò non lo si può soltanto osservare, ma anche fare. Si può vivere con più o meno mediazioni, in contesti più o meno ricchi. Si può ottenere o cercare di ottenere un durevole cambiamento della propria coscienza cambiando il proprio essere sociale. Si può aiutare a rendere le istituzioni statali contraddittorie e suscettibili di evolversi.

Vivere e morire

 
Ni-en diceva: Sempre nella vita c’è qualcosa che è in procinto di perire. Ciò che perisce non vuole però semplicemente morire, ma lotta per la propria sopravvivenza, difende la sua causa persa. Nella vita nasce altresì sempre qualche cosa di nuovo. Ma ciò che si desta alla vita non viene semplicemente al mondo: ferisce e grida e afferma il proprio diritto di vivere.

Dovete costruire la vostra vita

Non dovete costruire soltanto città, macchine e ponti, ma anche la vostra vita, disse Me-ti. Le città sono sorte disordinatamente, una casa si affiancava all’altra, una strada sboccava nell’altra, ma poi ci furono presto gli urbanisti. Certo ci sono anche città orrende, costruite secondo piani che erano appunto orrendi. (Se delle città costruite secondo piani sono orrende, non lo sono perché son costruite secondo piani, ma perché sono costruite secondo piani orrendi).

È più facile dire il credibile che il vero


Spesso si tenta di far credere ciò che non si può dimostrare. Ci si appella allora al proprio amore per la verità. Purtroppo non sempre il vero è il verisimile. Spesso ci vuole l’aiuto di qualche piccola bugia perché il vero diventi anche verisimile. Così si comincia a mentire nel momento in cui si può riscuotere fiducia solo appellandosi a una veridicità a tutta prova. Me-ti diceva: E più cauto da parte mia far sì che il mio amico possa credere a se stesso piuttosto che a me.

Cattive abitudini

Camminare in direzione di posti che non si possono raggiungere camminando è un’abitudine che bisogna perdere. Parlare di faccende che non si possono decidere parlando è un’abitudine che bisogna perdere. Pensare intorno a problemi che non si possono risolvere pensando è un’abitudine che bisogna perdere, diceva Me-ti.

Dorotheenstädtischer Friedhof, Berlin
estratti da:

mercoledì 30 novembre 2011

il Te del Tao: XXX - LIMITARE LE OPERAZIONI MILITARI


XXX - LIMITARE LE OPERAZIONI MILITARI

Quei che col Tao assiste il sovrano
non fa violenza al mondo con le armi,
nelle sue imprese preferisce controbattere.
Là dove stanziano le milizie
nascono sterpi e rovi,
al seguito dei grandi eserciti
vengono certo annate di miseria.
Chi ben li adopra
soccorre e basta,
non osa con essi acquistar potenza.
Soccorre e non si esalta,
soccorre e non si gloria,
soccorre e non s'insuperbisce,
soccorre quando non può farne a meno,
soccorre ma non fa violenza.
Quel che s'invigorisce allor decade:
vuol dire che non è conforme al Tao.
Ciò che non è conforme al Tao presto finisce.


M.C. Escher, Sphere Spirals, Woodcut printed from four blocks, 1958